L'Europarlamento ha stabilito che i neo papà possano usufruire di un congedo dal lavoro di due settimane a stipendio pieno. Mi da lo spunto per una serie di riflessioni il commento a questa notizia del giornalista Paolo Di Stefano, il quale, sul Corriere della Sera di oggi, p. 29, afferma che, se sul piano pratico non cambia quasi nulla - dato che mamme e nonne hanno sicuramente più esperienza dei papà -, la decisione del Parlamento europeo è destinata a incidere invece sulla sfera simbolico-emotivo-affettiva dei padri. "Dunque - esorta il giornalista - non buttiamola via questa proposta della Ue di rendere obbligatorio il congedo paterno per quindici giorni dopo il parto". "Obbligatorio - sottolinea -. Il che significa che non lascerebbe scampo agli alibi di impegni lavorativi e di responsabilità inderogabili esterne alla famiglia".
Secondo Di Stefano - lo si scopre ancora di più continuando a leggere l'articolo - la maggior parte dei papà vivrebbe la nascita di un figlio come un onere o come una distrazione da impegni più importanti come, appunto, quelli professionali. Quindi - sembra dire - ben venga una legge che richiami alle responsabilità familiari. D'altro canto - secondo lui - con la venuta al mondo di un bebè, non cambia il peso della gestione, che ricade sempre sulle spalle della madre: "In genere, dopo le due settimane, sarebbe comunque lei, la mamma, a sopportare lo stress post-parto delle notti in bianco o quasi (papà lasciamolo dormicchiare...), dei pianti e delle colichette (...). E dopo - dice ancora -, peggio che andar di notte (le notti insonni di cui sopra): provate ad andare in un pomeriggio qualunque davanti ai cancelli di una scuola materna a scelta e a contare i padri...Eventualmente, per aver numeri più confortanti - suggerisce - si passi ai giardinetti il sabato mattina o la domenica".
Per Di Stefano, le due settimane di congedo costituiscono, se non altro, un passaggio culturale rispetto alla cultura dei padri mediterranei in genere, "la cui intelligenza è radicata in un terreno compatto di tradizioni, convinzioni, convenzioni e abitudini antiche per non dire arcaiche. Giusto. Tant'è vero che oggi in Italia i padri che usufruiscono del congedo facoltativo sono una percentuale minima. Ma è a questo punto che interviene la forza simbolica che dovrebbe portarlo a riflettere, il padre, sulle esigenze di una nuova famiglia dentro una nuova società e un nuovo mondo. Perché se cambia tutto attorno a noi, sarebbe bene che cambiassero anche le dinamiche familiari, che agli ottimisti sembrano inossidabili e invece rischiano di essere incancrenite e vetuste".
Il giornalista finisce il suo pezzo parlando di "alibi biologico" dei padri e di "resistenza al cambiamento" da parte della società e dei datori di lavoro in cui mal si inserirebbero le nuove istanze presentate dall'Unione europea e che quindi, in un contesto simile, avrebbero scarsa possibilità di attuazione. Sono, queste ultime, questioni che poco mi interessano di fronte a idee di paternità, come quelle di Di Stefano, a mio parere del tutto anacronistiche. Penso, infatti, che il paradigma paterno, così come lo ha presentato, non appartenga più alla società in cui viviamo e in cui la rivoluzione culturale, che potrebbe essere apportata dalle disposizioni europee, è qualcosa di già avvenuto. Il modello di padre di cui si parla sul Corsera è quello tipico degli anni '50 e, dal punto di vista del piccolo osservatorio sulla paternità, costituito da questo blog e dalle numerose idee che scambio sul tema con molti altri papà blogger, emerge una realtà del tutto diversa. Un contesto, evidentemente nuovo per Di Stefano, dove i padri non solo collaborano e sono sempre più parte attiva nella cura della prole, ma vogliono esserlo anche in presenza di ostacoli come il lavoro.
Quanto poi allo scarso utilizzo dell'astensione facoltativa dal lavoro per i papà (nel 2009 ne hanno usufruito soltanto il 5,8 per cento, un trend comunque in crescita del 36 per cento rispetto all'anno precedente), questa è imputabile soltanto alla massiccia decurtazione degli stipendi che ne deriva (l'80 per cento!) e non alla mancanza di responsabilità all'interno della famiglia oppure al voler delegare ogni incombenza alle mogli. A questo proposito, l'anno scorso sul Guardian era riportata una ricerca della britannica 'Equality and Human Rights Commission', secondo cui non solo le mamme, ma anche i papà desiderano un giusto equilibrio fra ruolo di genitore e carriera. Non si trattava di una rivendicazione scontata, dato che questa ha riguardato da sempre solamente le donne. Soltanto, qui cambiava il punto di partenza: mentre le mamme vogliono, giustamente, anche delle soddisfazioni professionali, i lavoratori di sesso maschile vogliono, altrettanto giustamente, anche un appagamento che derivi dall'essere genitori.
Il rapporto dell'EHRC 'Padri, famiglia e lavoro' sottolineava come i papà siano "sotto pressione" quanto le mamme nella gestione del lavoro e della vita familiare. Il tempo è la costante dell'insoddisfazione che ne deriva: troppo poco quello dedicato ai figli a dispetto di quello, troppo grande, riservato al lavoro, con un 54 per cento di padri con figli al di sotto dell'anno di età che ritiene di non dedicare abbastanza tempo alla prole.
"Il desiderio di molti padri di passare più tempo con i figli può essere frustrato da lunghi orari e da posti di lavoro non elastici e fa scaturire tensioni fra lavoro e famiglia", diceva lo studio, sottolineando che soltanto il 46 per cento dei papà ritiene di trascorrere "la giusta quantità di tempo" al lavoro, contro il 61 per cento delle mamme. Inoltre, i 'padri lavoratori' non si sentirebbero a proprio agio nel chiedere mansioni più flessibili ai datori di lavoro, con due papà su cinque preoccupati che richieste simili possano avere ripercussioni negative sulla carriera. Ancora, nonostante possano usufruire di un permesso di paternità retribuito, il 45 per cento dei papà non si avvale di questo diritto, ammettendo tuttavia che gli sarebbe piaciuto farlo.