Sono padre di un adolescente. 17 anni, generazione Facebook. Lo dico con invidia: è una generazione che comunica, che vede, che ascolta oltre i limiti, i filtri che noi adulti possiamo imporre. Una generazione difficile, per noi genitori. A loro non si può non spiegare, non rispondere. La pena non sarebbe quella di essere mal considerati, ma di essere scavalcati, cancellati.
Mio figlio si pone domande urgenti: non sa se e come aderire alle manifestazioni di mercoledì prossimo. Ha 48 ore per decidere. Ho 48 ore per dimostrare che un padre sa comunicare meglio di Facebook. Ho iniziato parlando degli scontri, sottoponendogli le immagini delle devastazioni di Roma di qualche giorno fa. Lui ha opposto quelle sui presunti agenti infiltrati, sospetti provocatori. Quelle dei manganelli sulle teste di qualche manifestante. Gli ho spiegato che un poliziotto in cambio di uno stipendio da fame rischia la vita a ogni corteo. Lui mi ha fatto capire che proprio in virtù di quello stipendio da fame forse il poliziotto dovrebbe manifestare. Gli ho spiegato che quanto sta accadendo va ben oltre le contestazioni a una riforma dell’istruzione. Lui mi ha dato ragione e ha ribattuto che ben oltre va anche il disagio sociale diffuso. Gli ho spiegato che la violenza non porta a nulla di buono. Anche stavolta mi ha dato ragione, affermando che per questo non bisogna rinunciare al diritto di manifestare quando una parte accende le violenze.
Mi restano 48 ore. Mi sono collegato a Facebook, come ci si affaccia a una finestra per capire quel che accade fuori. E ho visto. Lui, i suoi coetanei, pubblicano messaggi di guerra sociale, ma anche versi di poesia intima. Acuti di spavalderia rivoluzionaria, ma anche canzoni, commenti teneri. Hanno progetti, ma contemporaneamente già nostalgie.
Ho 48 ore per fare come loro. Per dire che ho paura. Che non vorrei che mio figlio mercoledì prossimo stesse là in mezzo. Che ho la sensazione che sulla pelle di questi ragazzi qualcuno stia cercando il morto. Che quando c’era il '68 ero bambino, ma poi ho letto e mi sono reso conto che dietro ai cortei di allora c'erano giornate passate a discutere, a sviscerare pensieri, a progettare alternative. Ora invece sento che c'è qualcuno che spinge, che accelera, che suggerisce a questi ragazzi che non c'è tempo per discutere, ma è urgente andare in piazza e rovesciare qualcosa: che sia il governo o che sia un cellulare della polizia. Incendiare qualcosa, che siano gli animi dei coetanei o che sia un’automobile. Certo, la mia è paura. Ma non solo per la sicurezza di mio figlio.
Ho paura per la sicurezza della ragione, della verità. Forse in 48 ore riuscirò a dirglielo.
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