Riconosciuta la paternità naturale dell’uomo che rifiuta di sottoporsi a esame ematologico, anche se ha una protesi per una disfunzione erettile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 20235/2012 respingendo il ricorso di un cittadino di Trento contro la sentenza che ne dichiarava, su istanza della madre, la paternità naturale.
La Suprema corte non ha tenuto in conto delle disfunzioni del ricorrente in quanto non incidenti sulla capacità di generare, né ha ritenuto valide le ragioni di privacy addotte per non sottoporsi all’esame del Dna, anche considerata l’assenza di invasività dello stesso a fronte di una certezza pressoché assoluta dei risultati.
Inoltre, i giudici hanno chiarito che l’articolo 269, commi 2 e 4, sulla dichiarazione giudiziale di paternità, va interpretato nel senso che non sussiste un ordine gerarchico delle prove. Infatti, la legge prevede che la prova possa essere fornita con ogni mezzo, con l’unico limite che il quadro probatorio non consista delle sole dichiarazioni della madre e nella sola dimostrazione della consumazione di rapporti sessuali con il preteso padre.
Al di fuori di questo schema il giudice può formare liberamente il proprio convincimento, articolo 116 del Cpc. Non è dunque vero che il rifiuto della prova ematologica possa essere valutato come decisivo sole se sia stata provata aliunde l’esistenza di rapporti sessuali fra i due. All’opposto, un simile rifiuto costituisce un comportamento valutabile dal giudice proprio in mancanza di altri riscontri soggettivi.
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