Per quarantasette anni aveva vissuto con quel «macigno» sullo stomaco. E non era stata di certo una vita facile: da bambina aveva abitato nella casa dei nonni con la madre e dormiva nello stesso letto della bisnonna; poi aveva preso il diploma di licenza media e quello professionale di stenografa in un istituto religioso trevigiano, dove in cambio di un alloggio a titolo quasi caritativo lavorava agli ordini delle suore; da adulta era saltata da un lavoretto all’altro, trovando un impiego stabile da segretaria solo dieci anni fa. Poi, nel 2006, ha preso una decisione fondamentale: chiedere a quel padre — che l’aveva concepita con una cameriera dell’hotel jesolano dei genitori, ma poi l’aveva sempre rinnegata ed evitata—di riconoscerla e soprattutto di darle tutto ciò che non le aveva mai dato, soprattutto dal punto di vista economico, una sorta di «alimenti» a posteriori. Nei giorni scorsi, dopo quattro anni di udienze e testimonianze, il Tribunale di Venezia ha emesso la sentenza: oltre a riconoscere, sulla base dell’esame del Dna, che quell’uomo era suo padre, il giudice Maria Grazia Balletti lo ha anche condannato ad un risarcimento di 130 mila euro.
Tutto inizia a Jesolo nell’estate del 1958. Altra epoca rispetto alla «Miami del Veneto» di oggi, con i grattacieli che crescono come funghi, nonostante il blocco della Soprintendenza per quelli in riva al mare. Lui, Italo, è il «rampollo» dei padroni, 23 anni. Lei, Laura, la bella cameriera 22enne, figlia di un operaio e di una casalinga. Una sera la passione li travolge, lei rimane incinta. Uno scandalo, per i tempi, tanto più per la differenza di estrazione sociale. E infatti, le racconta la madre, quando in ottobre gli rivela di essere incinta, la reazione del giovane e della famiglia è di chiusura totale. «Devi andartene, non vogliamo che nostro figlio sposi una donna di servizio ». Da lì iniziano appunto gli anni difficili: la gravidanza e la nascita della piccola Paola, il lavoro che non arriva, se non con piccoli impieghi, la convivenza con i genitori. Proprio un mese prima del parto Laura tenta l’ultimo contatto con Italo, nel giorno del suo matrimonio con un’altra donna da cui avrà due figli. Viene addirittura allontanata dalla polizia, sebbene non l’avesse minacciato di rivelare il «segreto». Paola cresce, va a vivere dalle suore perché a casa non ci sono soldi per mantenerla. Si diploma, inizia a lavorare a 16 anni. Ma quel macigno segna per sempre la sua vita. Con un padre a contribuire al suo sostentamento forse avrebbe potuto continuare a studiare; avrebbe avuto un lavoro migliore; la sua intera vita sarebbe stata migliore. A 21 anni comunque si sposa e lavora con il marito per quasi vent’anni, fino al divorzio.
Lei sa che quell’uomo è suo padre, ma ogni volta che si incrociano lui la ignora e dunque oltre al danno c’è anche il dolore. Nasce così, anche alla luce delle innovazioni tecnologiche sul Dna e della pubblicità dei primi casi, il desiderio di ottenere quell’abbraccio paterno da un tribunale, quello veneziano. Si rivolge dunque all’avvocato mestrino Enrico Cornelio, che avvia la causa e chiede mezzo milione di euro: secondo il legale a tanto ammonterebbe il danno causato dall’uomo per aver lasciato Paola senza una figura paterna, senza sostentamento (perlomeno fino ai 18 anni), senza istruzione adeguata. Il giudice ha riconosciuto appunto solamente una parte, 130 mila euro. «Per questo faremo appello», afferma il legale. L’uomo peraltro, che oggi ha 75 anni, poi era diventato titolare di una tabaccheria a Jesolo, maora non avrebbe proprietà particolari. L’avvocato Cornelio aveva anche cercato di rivalersi su una società che ha con i fratelli. Resta il fatto che di fronte ai tribunali sono sempre di più gli uomini e le donne, anche di età superiore a quella di Paola (perfino settantennni), che chiedono giustizia nei confronti di padri che non li hanno riconosciuti. Anche se nessuna sentenza o carta bollata potrà mai riempire quel vuoto o sgretolare quel macigno.
Alberto Zorzi
corrieredelveneto.corriere.it
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