Manca letizia negli sguardi di Margherita. Suo padre glielo rimprovera ed è preoccupato per le sorti di questa sua figlia che non capisce più. Avevo un bel pallone rosso si snoda a cavallo del decennio che va dal 1965 al 1975. Gli anni della contestazione e poi della nascita delle Brigate rosse. Nel chiuso di una casa trentina, quella della famiglia Cagol, si discute su quello che sta succedendo all'interno dell'università.
Una cultura chiusa, un po' bigotta, si scontra con il cambiamento di Margherita. All'inizio i dialoghi, tutti in dialetto, hanno elementi di vita quotidiana. Via via che l'impegno della ragazza diventa sempre più forte, intrecciandosi con la relazione con Renato Curcio, c'è una metamorfosi anche del linguaggio.
Una scenografia asciutta, semplice, tutta giocata in piccoli spazi e con contrasti di luci molto efficaci vedono protagonisti sul palco Angela Demattè, che dello spettacolo è anche autrice, e Andrea Castelli. Bravissimi nelle loro interpretazioni, reggono quasi due ore di dialoghi e silenzi in modo emozionante.
Un testo che si attiene in modo stretto alla storia senza alcun giudizio o rivisitazione a posteriori. Sono tanti i piani di lettura dello spettacolo e il linguaggio ne è protagonista assoluto. La storia personale di una figlia e del padre che non la capisce più, la loro incomunicabilità, il dramma tutto personale si gioca dentro un contesto storico rilevante per tutto il Paese. Sono anni di trasformazioni a ogni livello. Il fermento pre sessantottino lo si avverte appena e si svela più in elementi educativi e del costume. Margherita, già universitaria, deve chiedere il permesso per uscire la sera ed è un valore il suo rientrare prima delle sette di sera. Il padre rigido, bigotto, ma anche ironico è attento a questi dettagli e si preoccupa dei giudizi della gente. Margherita lo ascolta, ne accetta le decisioni pur soffrendo di questa realtà che giorno dopo giorno sente sempre più stretta.
La distanza tra quel suo piccolo mondo e la volontà di occuparsi dei problemi degli operai, degli sfruttati, degli oppressi diventerà incolmabile fino alla scelta di sposare Curcio ed andarsene da casa. La formazione sui testi marxisti, sulle esperienze della rivoluzione culturale cinese e la militanza diventano tutto. Ci sono gesti simbolici forti come quello del crocefisso alla parete che diventa Lenin.
Il padre ora inizia ad essere preoccupato seriamente. Va a trovare Margherita, ormai Mara, a Milano, ma la figlia è distante, distratta, incapace di uscire dalla gabbia ideologica in cui vive. Anche qui l'autrice, oltre all'uso del linguaggio, tragico e quasi militare, fa compiere un gesto chiaro e netto di separazione. Mara non apre la confezione che contiene la torta fatta dalla madre. La prende, senza nemmeno aprirla, e la mette sopra la cucina in uno spazio quasi irraggiungibile. Lei, come i suoi compagni, fondatori delle Brigate rosse, si sono tagliati i ponti con il passato, hanno bruciato le carte d'identità perché le loro vite sono ormai altro.
La tragedia è annunciata e da quel momento sarà tutto un precipitare, nel Paese, e nella vita di Mara che verrà stroncata in uno scontro a fuoco ad Acqui nel 1975.
Un testo drammatico, ma anche fatto di tenerezza, di dolcezza, dove i ruoli spesso si invertono in un gioco che è tipico della relazione genitore figlio.
Uno spettacolo che fa discutere e farà discutere perché è coraggioso, non rimuove e indaga dentro l'anima dei protagonisti. Li presenta senza alcun giudizio, quello lo darà la storia, in questo caso non è in gioco nemmeno la magistratura perché Mara Cagol è morta.
Angela Demattè cerca di capire cosa abbia portato Mara alla trasformazione così forte, determinata e assoluta. Una domanda che resta aperta e il merito, grande, dell'autrice è averla messa in scena permettendo a ognuno di noi di farci i conti.
Marco Giovannelli: varesenews.it
In scena presso il Teatro Litta (www.teatrolitta.it)
Corso MAgenta 24, Milano - tel biglietteria 02/86454545