uando sento mettere sotto accusa i giovani d’oggi, mi viene da chiedere: di chi sono figli? Ragazzi che preferiscono stare tranquillamente in casa, che non si danno da fare per trovare lavoro, che non vogliono sacrificarsi per avere un minimo di autonomia... che sono, insomma, bamboccioni. Ma non sarà che la vera bambocciona è la mamma? Perché puntare il dito contro il figlio come se il suo modo d’essere fosse indipendente dall’educazione ricevuta?
Si dimentica il ruolo fondamentale della famiglia, perché la famiglia è considerata irrilevante nella nostra organizzazione sociale: quasi non si sa più cosa sia, e talvolta perfino ci si compiace che la tradizionale struttura familiare non ci sia più. In queste famiglie crescono i giovani d’oggi, quelli che sono diventati un’«emergenza nazionale», come la nostra politica generalmente li classifica. Sono disoccupati, male occupati, poco inclini a lasciare le mura domestiche per avventurarsi nella vita reale.
Dico subito che fare di ogni erba un fascio è, come sempre, sbagliatissimo. Alcuni miei studenti sono commoventi per la loro capacità di studiare, lavorare, vivere amando la propria autonomia. Altri, più che essere bamboccioni, hanno genitori bamboccioni, cresciuti nel clima di quell’assoluta irresponsabilità negli anni del ’68.
I sessantottini di un tempo che fu hanno vissuto la loro adorabile epoca in una gioiosa irresponsabilità sia per il modo di pensare che di agire. Potevano fare i rivoluzionari e intanto godere dei vantaggi economici della famiglia, attaccare la polizia a sassate, aggredire i professori, occupare scuole e università e venire considerati, dall’opinione pubblica che contava, degli alfieri di un nuovo mondo. Erano degli irresponsabili, incuranti delle conseguenze delle loro gesta e del loro modo di pensare. Questa generazione di sessantottini non poteva che mettere al mondo una generazione di irresponsabili. Madri iperprotettive che non vogliono assumersi il compito di educare i figli al sacrificio della ricerca della propria identità e autonomia. Madri affascinate dal proprio ego, come un tempo che fu, disinteressate alla formazione dei figli, incapaci di dare una seria linea di condotta perché richiederebbe una responsabilità troppo faticosa da gestire.
E, poi, padri inesistenti o inconsistenti. Famiglie sessantottine e padri rottamati: che cosa può venire fuori?
Proprio a partire dagli inizi degli anni ’70 è cominciato il bombardamento contro la figura del padre. Ad attaccarlo non erano slogan di piazza, ma libri pubblicati da editori importanti, articoli di giornale impegnativi, interviste... Una cultura che aggrediva il padre, colpevole di essere quel principio di autorità, regressivo e reazionario, che blocca lo sviluppo dei figli, ne impedisce l’emancipazione, reprime la sua libertà.
E di questa irresponsabile cultura oggi abbiamo i frutti. I padri se la danno a gambe, oppure quelli che vorrebbero fare i padri non sanno più da che parte incominciare. Così abbiamo una società mammizzata, con madri iperprotettive o innamorate del loro ego, con famiglie che non sono più famiglie. Da questa realtà è molto difficile per un giovane uscire fuori con una propria identità, con un proprio carattere capace di affrontare le sfide di questo tempo. Ragazzi fragili e insicuri che hanno paura di sognare, perché non sanno neppure cosa sognare. È il padre che può dare al figlio un’educazione sentimentale, mostrare col proprio esempio cosa significhi credere in un desiderio, cosa siano il coraggio, la lealtà, la necessità di rischiare. Per questo, se si vuole criticare un ragazzo, si vada a vedere di chi è figlio; se si vuole mettere sotto accusa una generazione di giovani, si metta prima di tutto sotto accusa una generazione di adulti.
di Stefano Zecchi
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