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Marcello Veneziani: Era mio padre ed č morto da bambino
Pubblicato il: 19/10/2010  Nella Sezione: Paternitā

Mio padre aveva gli occhi azzurri e guardava la vita con tenerezza celeste. Non reggeva la sua durezza, ne fuggiva le asprezze e si rifugiava nel mare, nel sole, nella scuola e nelle letture. Curava i suoi libri come si curano le piante, face­va giardinaggio filosofico. Animo genti­le prima che gentiluomo, amava dimet­tersi e pagava in anticipo per non avere mai debiti. Rimase per una vita nel pae­se natìo, non conobbe paesi stranieri, metropoli, traffico e affanni. Barattò il proprio tempo per il proprio luogo, pre­ferì Socrate all'automobile.

Gli bastava Kant per conoscere il cielo stellato, senza mai sa­lire su un aereo. In età grave non sopporta­va più la vita che si era fatta buia, sorda e pesante, e lui aveva la leggerezza degli spiriti delicati. Alla fine il suo corpo si era adeguato al­la fragilità del carattere; le sue piume di cristallo si era­no scheggiate. Scrivo di mio padre ma so di parlare di ogni padre perduto, non c'è cosa più universale degli af­fetti privati. E se il mondo ti istiga a rendere pubblico ciò che è intimo, tanto vale esibire gli affetti più intimi.

La notte dopo il funerale ho voluto dormire nel suo letto. Era il letto nuziale, più di sessant'anni di notti con mia madre. In quel let­to son nato, là in mezzo a loro ho dormito i miei primi anni. Approfittando della loro assenza, volevo torna­re nella loro stanza, tra i lo­ro oggetti, il comodino gre­mito di lui, i suoi vecchi ar­nesi per vivere e per spera­re, sotto quel Gesù che si af­faccia sul letto e benedice i dormienti. Ho rivisto un mondo, nella veglia e nel sonno. Ho ricordato ogni cosa, dalla borsa calda che ci passavamo tra i piedi ai racconti prima di dormire, accarezzandomi la testa. Penso alle ultime volte che ho camminato con lui. Mano nella mano a mio pa­dre, come cinquant'anni prima. Ma il bambino sta­volta era lui; non vedeva e non sentiva quasi più, e non sapeva più camminare da solo. Stava svanendo la sua mente e a volte, dopo una giornata trascorsa in ca­sa, chiedeva di tornare a ca­sa. Non era demenza seni­le, ma una traccia estrema di lucidità e una richiesta di­sperata di aiuto: chiedeva di tornare in sé, di ritrovare il suo corpo e la sua mente, e usava la metafora più ele­mentare, la casa, per invo­care il ritorno. Era una spe­cie di Ulisse a rovescio che non era mai partito da Ita­ca, ma la sua mente era par­tita da lui, in un'odissea sen­za ritorno, facendolo senti­re straniero in casa sua. Vo­leva ritrovare Penelope, il telaio e la trama perduta della sua vita. E rincasare tra i suoi libri e le sue abitu­dini. Pochi anni fa aveva tra­dotto il de Senectute ; ora in­vece lo attraversavano a vol­te allucinazioni brevi e gen­tili, si chinava a cogliere qualcosa di prezioso o tira­va con l'indice e il pollice un filo invisibile che solo lui vedeva: raccoglieva fiori metafisici, gemme platoni­che, avrebbe detto lui stes­so quando insegnava filoso­fia.

Quando perdeva lucidi­tà il suo sguardo era una la­vagna cancellata da ogni traccia di sé, e pure la bocca sembrava perdersi nelle ru­ghe del vuoto. Ha riacqui­stato da morto la dignità si­gnorile della sapienza. La mente offuscata gli donava tuttavia il candore dei cin­que anni, il suo viso era co­me liberato da novant'anni di vita e tornato bambino come nella foto vestito da marinaretto, sgombro da pensieri e memorie. È dol­g ce scoprire in un vecchio do­ve si nasconde il bambino, snidarlo negli sguardi e nei modi di atteggiarsi. Ma è un esercizio che costa a chi lo ama, perché se lo vedi bam­bino vedi svanire dal suo volto la vita e la storia da cui tu discendi, l'incontro con tua madre, la tua famiglia, la paternità, i libri e la me­moria di te. Rinunci a quel che di te c'è in lui pur di sal­varlo dall'oltraggio della vecchiaia. Dai bambino, apri gli occhi, non scherza­re con la morte.

Una delle ultime volte che venni a trovarlo era se­duto sulla sua poltrona inondata dal sole e aveva gli occhi socchiusi. Mi se­detti accanto a lui, gli sfio­rai le mani e gli sussurrai qualcosa all'orecchio per avvertirlo della mia presen­za. Lui mi guardò appena, muto e vago, poi mi chiese chi fossi. Dissi ad alta voce il mio nome, e lui biascicò sottovoce come parlando a invisibili terzi: ah, è il fratel­lo... Ma sono tuo figlio, guar­dami, alzai la voce. Mio pa­dre accennò di traverso uno sguardo, tacque, poi ri­salì dal silenzio e mi chiese come se fosse tornato alla normalità: hai visto sul gior­nale se c'è la notizia della mia morte? Gli presi le ma­ni e gridai: babbo, che dici, sei vivo, stai a casa tua. Co­me redarguito, mio padre girò leggermente la testa dall'altra parte, serrò le lab­bra come un portone anti­co mentre due lacrime bril­lavano alle estremità dei suoi occhi perduti nella not­t e. Alla fine in ospedale, gli massaggiavo a lungo la spal­la, ormai scheletrita, per dargli un estremo conforto e per riceverlo. Era l'ultimo modo per stabilire un con­tatto con lui. Vivendo lonta­no, non l'ho accudito come hanno fatto i miei fratelli; gli ho solo cucito vestiti di parole. Ma a quegli abiti lui ci teneva.

Ho perso il mio primo e più affezionato let­tore, ho perso il mio primo e indispensabile autore. In uno dei momenti di se­rena lucidità, la sua badan­te gli stava raccontando che sarei partito in barca per un viaggio. Poi gli disse: «Presi­de, perché non vai pure tu con lui inbarca?» Ero vicino a scrivere, mi fermai per guardarlo, lui si illuminò in viso e più volte ripetè riden­do: «Io in barca...». Sorride­va come un bambino e soc­chiudeva gli occhi azzurri, il padre mio. Chissà cosa so­gnava: la vita che si riapre al largo, il passato che riemer­ge dai flutti, una carezza di vento in alto mare.

Alla fine è salpato da solo. Però mio figlio ha gli oc­chi azzurri.

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