I limiti fissati dal legislatore nazionale per l'azione di riconoscimento della paternità sono incompatibili con la convenzione dei diritti dell'uomo e costituiscono una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare. Gli Stati, infatti, possono stabilire un termine di prescrizione che, però, non può essere assoluto e deve tenere conto delle circostanze dei singoli casi. È il principio stabilito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza del 6 luglio (Backlund contro Finlandia) che, di fatto, boccia le legislazioni nazionali che impongono un termine di prescrizione per l'esercizio dell'azione di riconoscimento giudiziale della paternità a figli nati fuori del matrimonio. Un'affermazione destinata ad avere effetto anche nel settore delle successioni e sulle legislazioni di altri Stati. Inclusa quella italiana che dichiara l'imprescrittibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità a vantaggio del figlio, ma pone un limite di due anni per i discendenti.
La vicenda approdata a Strasburgo è iniziata in Finlandia: un figlio, nato fuori del matrimonio e mai riconosciuto, aveva avviato l'azione per il riconoscimento del suo status, anche utilizzando il test del Dna. La prova genetica aveva accertato l'identità del padre biologico, ma la corte distrettuale aveva respinto l'azione di riconoscimento perché avviata dopo il termine di 5 anni fissato dal Paternity act. Il figlio, quindi, non aveva potuto dimostrare il legame con il genitore ed era stato escluso dall'asse ereditario. Di qui il ricorso a Strasburgo che gli ha dato ragione.
Prima di tutto – ha chiarito la Corte – l'azione di accertamento della paternità rientra nella nozione di vita privata perché riguarda l'identità personale ed è protetta dall'articolo 8 della convenzione. La Corte riconosce che gli Stati possono stabilire un limite temporale per l'azione giurisdizionale per tutelare la certezza dei rapporti del padre putativo, ma l'attuazione di questo limite deve avvenire nel rispetto della convenzione. Ogni individuo, infatti, ha il diritto di conoscere le proprie origini e la verità su un aspetto così importante della propria identità personale per «eliminare ogni incertezza su questi aspetti». Al tempo stesso, però, il padre putativo e i familiari, per ragioni di certezza giuridica, non possono essere sottoposti, in qualsiasi momento, a controlli sui propri rapporti. Un conflitto di legittimi interessi che la Corte ha risolto a vantaggio del figlio che punta all'accertamento della paternità. È vero che il figlio, in base alla legge finlandese, aveva avuto 5 anni di tempo per avviare l'azione, ma per la Corte non è accettabile l'automaticità del decorso del termine, senza alcuna valutazione delle eventuali difficoltà incontrate dal ricorrente. Questo vuol dire che il termine di prescrizione può essere previsto, ma deve essere applicato con flessibilità, tenendo conto delle circostanze del caso.
Ad applicare con rigore il termine si arriva a una situazione paradossale: il figlio dimostra con la prova del Dna la paternità, ma non riesce a ottenere, per l'applicazione automatica del termine, l'accertamento in sede giudiziaria. Una conclusione inaccettabile perché priva il figlio dell'attuazione dei propri diritti, che ha spinto la Corte a condannare la Finlandia e ad accordare al figlio un indennizzo per il danno morale subito, che Strasburgo quantificherà con un'altra decisione.
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