L'istituto del mantenimento, che si configura come una obbligazione ex lege a carico di determinati soggetti specificatamente individuati, trova il proprio fondamento nelle più elevate fonti di diritto dell'ordinamento giuridico italiano. Esso mira al soddisfacimento di qualsivoglia esigenza di vita del beneficiario, ivi comprese quelle non strettamente necessarie alla sopravvivenza, e a prescindere dalla sussistenza di uno stato di bisogno. L'obbligazione di mantenimento nei confronti dei figli, in particolare, trova la propria disciplina già a livello costituzionale: l'art. 30 della Costituzione della Repubblica Italiana stabilisce, infatti, che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Si tratta, pertanto, di un obbligo che sorge direttamente ed in via immediata dal rapporto di filiazione e, dunque, gravante non solo sui genitori nel caso di figli nati nell'ambito del matrimonio, ma, altresì, nel caso di riconoscimento del figlio naturale. La norma costituzionale in materia di mantenimento è ripreso dall'art. 147 del Codice Civile il quale espressamente prevede che "il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli", specificandosi, inoltre, nel successivo articolo codicistico, che i coniugi devono adempiere l'obbligo in parola in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale e casalingo. D'altra parte, avendo l'obbligo di mantenimento della prole un carattere prettamente patrimoniale, esso è indipendente e autonomo sia dalla sussistenza della potestà genitoriale, sia dal fatto della convivenza dei genitori con i figli. Nell'ambito della fondamentale disciplina costituzionale e codicistica si è inserita la giurisprudenza della Corte di Cassazione a dettare i criteri e le linee guida volte alla tutela dei figli, adeguando la portata normativa al continuo mutare dei tempi e della società italiana. In primo luogo i Giudici hanno provveduto, mediante numerose pronunce, ad assimilare la posizione del figlio ormai maggiorenne, ma ancora dipendente dai genitori senza sua colpa, a quella del figlio minore. Sulla base di tale equiparazione viene evidenziato il momento in cui ritenere cessato l'obbligo al mantenimento; ciò in considerazione del fatto che lo scopo della normativa in questione è quello di consentire ai figli di iniziare in modo autonomo la propria vita svolgendo l'attività lavorativa più consona alle proprie possibilità e alla propria scelta (articolo 4 della Costituzione). Sulla scorta di tali principi la Suprema Corte ha, quindi, ritenuto che anche il figlio che abbia raggiunto la maggiore età e che sia laureato ha diritto ad ottenere l'assegno di mantenimento finché non trovi un'occupazione adeguata alla sua condizione sociale, purché si attivi a reperirla e non vi sia una sua inoperosità. Di più: il figlio che rifiuti (e tale rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia) senza giustificato motivo un posto di lavoro fisso (adeguato alle proprie aspirazioni ed inclinazioni naturali, occorrerebbe aggiungere) procuratogli dal genitore non può, poi, pretendere di continuare ad essere mantenuto. Ma la Suprema Corte è andata ancora oltre: con la propria recentissima pronuncia n. 24018 del 24 settembre 2008 ha affermato che l'obbligo di mantenimento riprende vita nel caso in cui il giovane abbia deciso di lasciare il lavoro che lo aveva reso economicamente indipendente per riprendere gli studi, partecipare a corsi di formazione e seguire così le proprie inclinazioni ed aspirazioni. I Giudici della Corte hanno, peraltro, provveduto a ribadire, nella medesima pronuncia, che i figli non possono pretendere di essere mantenuti all'infinito ed occorre tenere conto dei "limiti temporali in cui le aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia". D'altra parte la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che i figli, i quali lavorino ma guadagnino poco, possono continuare ad essere mantenuti dai genitori, ordinando, conseguentemente, il ripristino del mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne non autosufficiente dal punto di vista economico pur avendo questi un contratto da apprendista presso un albergo e frequentando, intanto, un istituto alberghiero al fine di ottenere un altro diploma. Con ciò affermando il principio per cui non è sufficiente il mero godimento di un reddito per far cessare i doveri dei genitori verso i figli, almeno fino a quando questi ultimi non siano economicamente indipendenti. A tal proposito, però, gli ermellini, con altro provvedimento, hanno precisato che il mantenimento può ritenersi cessato anche nel caso di lavoro con patto in prova di sei mesi qualora sia già decorso un mese dall'assunzione del figlio, perché a quel punto è ragionevole dedurne l'acquisto dell'autonomia economica. In definitiva si può fondatamente ritenere che l'obbligo di mantenimento non si estingue automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma continua a sussistere sino al momento in cui la prole non acquisisca l'indipendenza economica. E a tal proposito occorre sottolineare come la prova del fatto estintivo dell'obbligazione in parola, consistente detto fatto non solo nel raggiungimento dell'autosufficienza economica, ma, altresì, nella circostanza che il figlio sia stato posto nelle condizioni di divenire tale anche se quest'ultimo per cattiva volontà non ne abbia approfittato, grava sul genitore o sui genitori che intendano far valere la cessazione del diritto della prole ad essere mantenuta.
Naturalmente, resta fermo il diritto agli alimenti, nel caso in cui il figlio maggiorenne non abbia redditi propri, ma sia responsabile di questa situazione e versi, pertanto, in stato di bisogno non risultando in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tal caso l'art. 440 del Codice Civile prevede, ad ogni buon conto, la possibilità di una riduzione degli alimenti in caso di condotta disordinata e riprovevole.
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