Adesso che stai male devo parlarti e darti da bere.
A piccoli sorsi - mi raccomando - altrimenti potresti vomitare ancora.
La notte non termina mai e tu ti svegli cento volte per la sete. Dici un verso (non lo fai, lo dici, perché è già parola quella con cui ti esprimi) che io ascolto. Sempre identico, sempre lo stesso verso.
Significa: voglio un po' d'acqua.
E io mi affretto a risponderti: ecco l'acqua.
Allora tu bevi, non hai ancora finito, ma io devo già toglierti di bocca il biberon.
Ti dico: basta adesso, un poco per volta.
Ti sistemo sul cuscino, ti riaddormenti subito, ma presto ti sveglierai, ancora per la sete.
Ti accarezzo i capelli, le guance accaldate. Respiro per un attimo il tuo stesso respiro che non ha sapore ed è come lo scirocco, quando soffia al di sopra del mare, l'umidità che sfiora soltanto l'acqua, incapace di fare di più.
Ti parlo e ti do da bere per tutta la notte, al buio, a piccoli sorsi. Pronuncio termini che non significano nulla, perché le parole contano e non il loro significato. Il suono importa, non il racconto. Solamente il tuo verso è indispensabile.
Ti parlo e ti do da bere, ma a piccoli sorsi. Così non ti disseterai mai, lo so io e lo sai anche tu che è una tortura. Un po' d'acqua non spegne la sete, l'alimenta.
Non so fare altro: le mie brevi parole cadono sul silenzio come pioggia su di un selciato che resta asciutto.
Inghiottite in bolle di polvere, sono gocce che scompaiono nella terra arida.