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La fine di qualcosa
Pubblicato il: 13/09/2011  Nella Sezione: Tutto io devo fare

Io non se esista e, comunque, non conosco la parola che sappia descrivere il mio stato d'animo, quando mi rendo conto che qualcosa è (già) finita. Uso non a caso il generico "qualcosa", perché questo mio sentimento senza un nome è comune a una gran quantità di situazioni poco o molto importanti, più o meno valide. Insomma, non è questa o quella vicenda a turbarmi, ma semplicemente la sua conclusione. 
Come a dire che la scena più triste del film sono i titoli di coda dopo la scritta "The end", la musica di sottofondo mentre le prime, tenui luci incominciano lentamente a riaccendersi in sala, gli spettatori col groppo alla gola, che riprendono colore dal buio in cui erano immersi, alcuni seduti ancora per un po', gli altri che si rivestono senza riuscire a staccare gli occhi dallo schermo. E poi, mentre escono, intanto che tornano a casa, la mente ancora lì, fra le scene appena viste, fra i paesaggi e i dialoghi e le vite di altri, nelle quali sono entrati, invitati a farlo, con le loro vite tutte diverse, le une dalle altre. 
La fine di qualcosa, la nostalgia per ciò che è stato e che non tornerà più, questa specie di ansia che mi assale quando, a conclusione del giorno, tutti gli altri dormono e io li osservo respirare con gli occhi chiusi e il petto che si alza e si abbassa, ritmicamente. La mancanza di una colonna sonora a bombardare le orecchie, di una distrazione, di una televisione accesa magari nell'altra stanza, ma che mi distolga da me stesso. L'assenza di voci, perfino di urla e di pianti. Le abitudini, belle e brutte, e che di colpo scompaiono. Alcuni libri per l'infanzia ormai logori, i personaggi dimenticati con le loro frasi recitate a memoria e con un'altra voce, certe strade percorse infinite volte e adesso deserte. Fatiche insopportabili e mal di testa, che non vedevi l'ora finissero e che assurdamente adesso mancano e lasciano un senso di vuoto.
Tutto questo è la nostra Odissea: uscire di casa per andare in guerra e, alla fine della guerra, combattere ancora, solamente per far ritorno a casa. E infine, sdraiati sul letto, accorgersi che manca - ed è questa mancanza a dolere - proprio la guerra. Sapere quanto il vuoto dell'esistenza sia riempito da una quotidianità elementare, quasi inutile e superflua, eppure così necessaria e fondamentale. Rendersi conto, poco prima di prender sonno, che paradiso e inferno sono fusi nelle nostre povere vite, che durano quanto vogliono e devono, ma che in ogni caso finiscono. Come i giorni, tutti i giorni, finché abbiamo occhi per guardarli comparire così come per vederli andar via.