C’è un adagio largamente consolidato tra gli insegnanti ove si vuole che ogni studente con i genitori separati abbia una giustificazione in più per essere sofferente, disadattato, poco reattivo nell’eseguire i compiti che gli vengono assegnati. In altre parole “in crisi”. Un immaginario talmente radicato da funzionare a priori, pur non portando necessariamente qualche vantaggio al tapino. Del resto il numero di coppie scoppiate raggiunge ormai livelli statistici tali da non poter più rappresentare mere eccezioni.
Come in tutti gli immaginari collettivi dentro a questa percezione vi è una grande verità, come pure grande superficialità. Si stigmatizza la piaga, specie in una società formalmente legata ai valori conservatori, senza considerarne la radice. Che a mio avviso è inscindibile da quell’immaginario.
Una volta una ragazza parlando della separazione di un amico di famiglia - sulla quale proiettava le proprie paure inconsce - disse: «Ma se Tizio non avesse sposato Caia i figli non sarebbero nati». Apparentemente era una valutazione, ma in realtà vi era dentro un appello. La sofferenza nei figli quando i genitori si separano, e l’eccesso di sofferenza ancor più, gravitano intorno ad una grande paura: l''Horror Vacui di “non essere mai nati”, o di essere nati per sbaglio. Bambini e ragazzi temono venga loro sottratta la bontà della propria origine, fino a quel momento percepita come salda. Il tema è cioè “non sono stato voluto davvero”.
Questo è un problema psicologico ancorché metafisico. Ma è un problema per dir così a monte rispetto alla sua manifestazione. Perché il tema della origine è tanto più sentito quanto più il soggetto che ne patisce ha una identità debole, che si risolve cioè nella compattezza dei contenitori dove si è sviluppata. Se regge la famiglia regge l’identità. Un problema che nasce molto lontano. Il bambino vive nel grembo della madre una esistenza uroborica, un legame dove si forma l’immagine corporea della persona - il corpo è l’origine dei sentimenti. Egli vive quel legame come una condizione inscindibile, o come dice James Hillman, una sorta di estasi paradisiaca. Da quel “paradiso” il bambino ne esce attraverso un tradimento. La placenta diviene il Paradiso Perduto raccontato da Milton. Dal “mondo perfetto” il bimbo viene precipitato in una esistenza terrea e dolorosa. La prima cosa che gli succede è l’ingresso di un fuoco (sacro) nei polmoni, lì dove prima l’esistenza amniotica gli consentiva una vita sospesa e precosciente. Le puericultrici avvicinano poi il bambino al corpo della madre, dove egli viene rassicurato dalla presenza di un suono conosciuto, ascoltato per nove mesi. Quella pulsazione costante è per il neonato la vita medesima. Nasce quindi un imprinting, che consente al bambino di stabilire una equazione: “Io ci sono perché Lei c’è”. Dove “Lei” è tanto la madre biologica, quanto anche la Grande Madre della psicologia archetipica Junghiana. Il pianto del bambino altro non è che la domanda disperata di esistere, come se l’attenzione materna fosse l’unico diaframma in grado di preservare la creatura dal baratro della inesistenza. La madre compiendo il rito della nutrizione, ricostituisce parzialmente quella fusione originale, e conferma il bambino nella certezza della bontà del suo esistere. Rendendolo altresì dipendente dal gesto. Inconsciamente anche lei diventa Lei, e assume il ruolo di donatrice della vita, accollandosi anche però un principio colpevolizzante per avere rotto quell’idillio. Spesso le madri vivono un forte senso di colpa per quella rottura e sentono un obbligo al risarcimento. Il problema nasce quando la nuova unione fusionale e uroborica non si scinde. Mai.
Il padre viene visto come un intruso rispetto a quel legame. Poco partecipe dell’evento egli si svilisce e ridimensiona il proprio ruolo. Spesso la genitorialità nella nostra società tuaregh viene vissuta come una peculiarità materna. Una amica insegnante di scuola dell’infanzia mi racconta quanto i padri siano impacciati durante i colloqui, e spesso si risolvano in un “Lo dica a mia moglie”. Questa asimmetria genitoriale è assai pericolosa, perché il percorso di crescita di un bambino dovrebbe essere determinato dalla combinazione tra la spinta centripeta materna, e quella centrifuga paterna. Tra il conosciuto e il nuovo. Tra la protezione materna, e la dimensione di rischio del padre. Tra la conservazione del cerchio uroborico e la rottura del medesimo. I padri però latitano, e la rottura non avviene. L’effetto di questa dinamica è il sovradimensionamento del complesso di Edipo, che non si risolve mai. James Hillman apre il saggio sul Puer Aeternus con un meraviglioso witz ebraico; un padre a passeggio con il proprio bambino lo fa saltare dai gradini di una piccola rampa. Quando il bambino si lancia dal gradino più alto, rassicurato dal genitore, il padre si sposta e il bambino cade. Hillman dice: “Mentre (il bambino) tutto sanguinante e piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: «Così impari: mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre».
Un racconto sgradevole, inaccettabile o quasi in una società come la nostra, dove l’attenzione corre immediatamente ai sentimenti del bambino e alle ginocchia
sanguinanti. Ci si scandalizza per il tema archetipico del tradimento - il libro di Hillman è incentrato sulla tematica del tradimento come atto fondamentale e necessario per la costituzione del Sé - e non ci si sofferma sulla pregnanza pedagogica della prova. Il figlio infatti comprende in quel momento di doversi rialzare da solo. Ancora di più: egli scopre di avere il potere per rialzarsi. Impara cioè che il tradimento, inconcepibile nel regno della Grande Madre, invece esiste - suo Padre glielo insegna - e che, per quanto doloroso non uccide. Né fisicamente, né psichicamente. Ma rappresenta l’ingresso in una vita nuova. La propria.
L’epoca in cui viviamo è caratterizzata da dinamiche fortemente matriarcali, dove il bambino non cresce mai - viene in mente la definizione di bamboccioni del compianto Padoa Schioppa, o la reazione di isteria collettiva quando Brunetta propose di creare un sostegno ai figli che abbandonano il nido materno - e rimane in uno stato di vacua adolescenza per tutta la vita o quasi. Il peterpanismo incombe ovunque.
Ecco dunque… dal punto di vista dei figli la separazione dei genitori è tanto più intollerabile, quanto più essi non sono certi e saldi nella consapevolezza delle proprie risorse. Il progetto della costituzione di una identità propria nel bambino e nell’adolescente viene percepito come messo a repentaglio a causa del mancato mantenimento di una promessa originaria. Ma chi può dare ad un altro essere umano una tale garanzia?
I figli vanno effettivamente in crisi quando il contenitore scricchiola o si rompe, mettendo in discussione l’esistenza del contenuto. Il nostro è un tempo di contenimenti, e la soluzione di qualsiasi problema viene ricercata nel rafforzamento delle pareti del contenitore dove il problema era nato. Molto meno nella costituzione di contenuti più solidi.
La famiglia è in crisi? Consolidiamo la famiglia. Sprecando l’opportunità di cercare strumenti utili per fortificare l’identità dei soggetti sul palcoscenico, e non semplicemente le assi da essi calcate in quella recita. Quegli uomini potrebbero così diventare adulti incompiuti, pronti a creare altre storie familiari fallimentari, soprattutto perché originate da libertà ancora acerbe. Magari continuando a cercare la Madre in tutte le donne che incontreranno.
di Claudio Mercandelli