“L’extra-terrestre”. Questo il titolo di un racconto che Mariagrazia Nemour, 38 anni, di Borgiallo, ha scritto in occasione del Giorno della Memoria che verrà celebrato giovedì 27 gennaio.
Il racconto parla degli occhioni di un piccolo extra-terrestre che guardano un mondo troppo ingiusto per essere compreso, sono gli occhi di un bambino. L’aria che si respira è quella di un Olocausto mai finito, che si accanisce su molte razze e che spazia in ogni latitudine. Una storia commovente che racconta l’immenso amore che c’è tra un padre e un figlio, il profondo senso di protezione fatto di abbracci, parole e questo legame che permette al padre di riscaldare la propria umanità in un luogo in cui la maggior parte delle persone non aveva più la mente e il cuore degli uomini. Un racconto inedito scritto per ricordare gli orrori dell’Olocausto e per onorare la memoria di chi ha perso la vita in un modo così orrendo.
Ecco il lavoro di Mariagrazia Nemour.
“Papà!”
“Papà sei sveglio?” Ripeté il bambino.
Una tosse profonda fece sussultare il torace del padre, scuotendogli le viscere. Un terremoto in una caverna senza luce. Un suono che alla fine si bagnò del sangue che l’uomo sputò nella stoffa stretta in mano. Neanche il caso di nasconderlo, ormai.
“Sì. Non riesci a dormire? Hai freddo?Vieni più vicino”.
L’uomo allargò il braccio e il bambino si rannicchiò nell’incavo. Le ossa dell’uno incastrate nelle ossa dell’altro. Solo spuntoni sotto la mano dell’uomo. Il bambino era da qualche parte fra quelle ossa. Da giorni l’uomo si chiedeva quale fosse il peso minimo per vivere. A quanto pesava suo figlio, non voleva pensare. Non ci riusciva.
“Non lo so se ho freddo. Non mi ricordo più come stavo quando non avevo freddo. Papà avrò freddo per sempre?”
L’uomo cercò di pensare a qualcosa di caldo da raccontare al bambino. Gli venne in mente la riviera, sotto il sole del mezzogiorno. Strizzò gli occhi nella luce. Sentì il profumo di prosciutto nella piadineria dello stabilimento, si scottò i piedi sulla sabbia, o almeno ci tentò. Ma erano ricordi grigi, freddi. Cercò di colorarli. Rimasero freddi.
Un giro di più nella morsa che gli chiudeva la gola. Questa morsa non potrà girare per sempre, a un certo punto non potrà chiudersi ulteriormente, pensò. Cosa succederà dopo?
“Quando penso a te, io mi sento un po’ più caldo” disse il padre. Gli accarezzò i capelli sporchi. Sotto la mano li sentì fini, aggrovigliati, puzzolenti, freddi.
“Papà pensi che moriremo?”.
“Le persone muoiono. Ma non moriremo adesso”. In realtà non so se siamo ancora vivi. Non so se questa è vita o morte. Sopravvivere non è vivere. Sopravvivere ti fa pensare che la morte non è poi tanto male. Ma questa è una cosa che un padre non può dire a un figlio. Neanche qui. Neanche adesso.
“Se stessimo per morire me lo diresti papà?”.
“Non lo so. Ci proverei”. Subito si chiese: e allora perché non lo faccio? Perché non ti dico che mi porto la morte dentro e che non so quando uscirà? Si affaccia dagli occhi, dalle orecchie, dalla bocca. In fondo l’aspetto. Non te lo posso dire, ma l’aspetto. La morte qua si infiltra dappertutto, nei muri, sui tetti, nella neve, nell’aria. Viviamo la morte.
“Piccoletto, hai parlato più stasera che nelle ultime settimane. C’è un motivo? È successo qualcosa di diverso oggi?”. Che domanda stupida da fare nel bel mezzo di un incubo. Soprattutto se non si vuole sentire la risposta.
“Oggi pomeriggio ho capito che un giorno di questi non tornerai”.
Di nuovo la tosse. Scosse che tormentarono l’intero corpo e si infransero sul corpicino rannicchiato accanto. Il momento sbagliato per una accesso simile. Il momento sbagliato per convincere qualcuno che la morte è un’idea astratta e lontana.
“Papà, puoi fare una cosa per me?”.
“Certo. Lo sai che farei qualsiasi cosa per te”.
“Allora…allora, papà, promettimi che non mi lascerai solo”.
“Vuoi dire durante il giorno? Sai che non è possibile”.
“Voglio dire che mi devi promettere che non mi lascerai qui da solo quando morirai, papà”.
La morsa girò ancora intorno alla gola dell’uomo. Ogni volta che pensava di aver raggiunto l’apice del dolore, scopriva di poter fare ancora un passo. È questo l’inferno? Poter fare sempre ancora un passo nella disperazione?
“Ho sempre paura. Ogni momento. Oggi ho avuto paura che tu non tornassi. E poi ho avuto paura di rimanere qua, senza di te. Se morirai, non voglio rimanere qua da solo, papà”.
No, un bambino non può dire queste parole a un padre. E un padre non può rispondere.
L’uomo usò anche l’altra mano per abbracciarlo. C’era poco da abbracciare. Troppo poco. Abbracciava tutto quello che gli rimaneva al mondo. Avrebbe voluto stringerlo fino a farlo entrare dentro di sé. Il bambino era nato nel corpo della madre, perché non poteva morire nel corpo del padre? Non sarebbe riuscito ad accontentare il bambino.
Egoisticamente aveva già deciso di soddisfare il suo bisogno di non staccarsi dal piccolo, di farsi ammazzare se il figlio fosse morto. Ma il contrario no, non poteva permetterlo.
Rimaneva una speranza che non poteva togliere a quell’esserino con gli occhi grandi quanto l’intero viso. Occhi scavati, senza sangue. Occhi che non avevano più paura della morte che della vita. Gli occhi di un piccolo extra-terrestre.
Da dove vieni? Non sei di questo mondo, sei troppo bello, gli capitava di pensare la notte, guardandolo dormire.
“Esiste un mondo in cui i bambini come te possono correre sull’erba, cantare, mangiare cioccolata e piangere per cose stupide. Non ti posso togliere la possibilità, anche se piccola, di vivere in quel mondo”.
“Voglio vivere in un mondo dove sono sicuro che non rimarrò solo”.
“Va bene, te lo prometto”. Un’altra bugia, in un mondo di bugie. In un mondo in cui non si può vivere, in un mondo in cui non si può fare vivere un figlio.
Quella notte l’uomo sognò il più impossibile dei sogni.
Voglio scavare, riempire le unghie di terra nera e continuare a scavare fino a trovare nella memoria un ricordo caldo da mettergli tra le mani prima che muoia. Questo pensò prima di addormentarsi, distrutto da una fatica che aveva il vantaggio di schiacciare i pensieri.
Nel sogno sorrise, strinse così forte il bambino a sé da svegliarlo. Il piccolo rimase a guardarlo.
Sai papà, vederti sorridere mi riscalda, questo gli avrebbe detto se il padre si fosse svegliato. Il piccolo cercava con la mano di acchiappare le parole che uscivano dalla bocca del padre, ma non riuscì a entrare nel suo sogno. Rimase fermo al cancello, davanti al sorriso.
La mente dell’uomo viveva l’indomani. Una mattina fredda, grigia e nevosa, come le altre. Ma qualcosa di diverso c’era. Dove erano finiti gli ordini urlati a calci? Dove erano finite le fauci dei cani che affondavano nelle calcagna? L’uomo, nel sogno, si alzò e strinse la mano del bambino, una mano piccola, troppo piccola – ma gliela strinse davvero anche in quella branda di assi marce – uscirono dalla baracca barcollando. Si guardò intorno e vide degli uomini che – come loro – non avevano più le sembianze degli uomini. La maggior parte non aveva neanche più la mente degli uomini. Alcuni non avevano più il cuore degli uomini. A volte per sopravvivere devi rinunciare a essere un uomo, pensò. Ma lui aveva il figlio dentro cui riscaldare la propria umanità. Camminavano affondando gli stracci legati ai piedi nella neve. Camminavano senza fucili puntati. Camminavano senza colpi branditi sulla nuca e sulle ginocchia. Camminavano senza ordini urlati contro la dignità di chi li deve eseguire. Camminavano da uomini. Camminavano su una neve sempre più calda.
Il bambino toccò con le mani il sorriso del padre, chiuse gli occhi ed entrò in quel sogno.
L’uomo mise una mano a riparo degli occhi e guardò in alto. Il rombo degli aerei degli alleati riempiva il cielo. La porta del quartier generale del campo di concentramento sbatteva nel vento. Urlava che i militari tedeschi erano scappati nella notte. Sono scappati con le camionette nell’oscurità, ululava nel vento caldo.
Che stupidi – pensò l’uomo – credono di correre così veloci da scappare dal buio che si portano dentro.
Nel sogno l’uomo si accovacciò sul selciato, cullò il bambino e gli raccontò di un mondo che stava per essere ricostruito. “Noi metteremo questa pietra nel nuovo mondo” disse il padre, staccando del pietrisco dal cortile con la mano. “Noi metteremo l’amore che c’è tra un padre e un figlio”.
“Papà, io posso mettere la cioccolata nel nuovo mondo?”
L’uomo sorrise, sorrise davvero.
“Sì,piccoletto. Tu metterai la cioccolata”.
L’uomo si cullò con il bambino tutta la notte in quel sogno caldo.
Per tutto il tempo nascose al bambino la verità, nel sogno: erano passati sessantasei anni da quel 1945 in cui una parte del mondo aveva pensato che i diritti umani non sarebbero più stati masticati, digeriti ed evacuati da altri uomini. Così non era stato. Era successo ancora. Non aveva mai smesso di succedere. Succedeva ora.
“Ma un padre e un figlio troveranno ancora il modo di sognare un posto caldo” disse lentamente l’uomo al bambino addormentato. Un modo per scaldarsi prima di morire, pensò.
Una lacrima gli percorse il volto, dondolando da un osso all’altro. La lacrima si posò sulla fronte del piccolo extra-terrestre, il corpo era gelato.
localport.it