Alcune storie finisco male. Altre, per fortuna, hanno un lieto fine. Tutte di certo passano per una corsia d’ospedale, con notti insonni e grandi speranze, con un desiderio che le accomuna: «Mamma, quando torniamo a casa?».
È la domanda ricorrente, la prima, la più insistente di ogni bambino (ma in effetti è l’aspirazione anche di qualsiasi adulto) che si trova costretto in un letto che non è il suo per curarsi. E se la diagnosi è quella di un tumore, bisogna spesso mettere in conto un lungo periodo di ricovero, in molti casi in città lontane. Lontane dalla «normalità»: da casa, amici, scuola, parenti e da un pezzo del nucleo familiare.
DUE SU TRE GUARISCONO - Bambini e cancro: due parole che non dovrebbero incontrarsi mai. Invece il tumore è la principale causa di morte, dopo gli incidenti, nell’età fra uno e 15 anni. In Italia si ammalano ogni anno circa 1.300 bambini, «Ma il messaggio da far passare è che se oggi una persona su 600 riceve una diagnosi oncologica nei primi 15 anni di vita, due malati su tre guariscono – sottolinea Giorgio Dini, presidente dell’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (Aieop) -: si laureano, si sposano, fanno dei figli. Molti, grazie ai progressi nella diagnosi precoce e nelle terapie sempre meno aggressive (per limitare gli effetti collaterali nel tempo), tornano a una vita normale».
Dopo le leucemie, i tumori pediatrici più frequenti sono quelli del sistema nervoso centrale, i sarcomi, il neuroblastoma, il nefroblastoma (che colpisce il rene) e i linfomi. Nella stragrande maggioranza dei casi servono terapie lunghe e numerosi controlli, che obbligano i piccoli malati e i loro genitori a moltissimi sacrifici. Primo fra tutti l’allontanarsi da casa, perché i centri specializzati in oncologia pediatrica sono una manciata sul territorio nazionale. E perché è in crescita il numero di pazienti che arrivano dall’estero, soprattutto dai Paesi più poveri dell’Unione europea.
«IO QUI NON CI VOGLIO STARE» - «Meglio morire che stare mesi in ospedale, senza amici e senza capelli: io qui non ci voglio stare». L’adolescenza è difficile, si sa, anche senza dover fare i conti col cancro. Stefano aveva 12 anni quando, dopo lunghe peregrinazioni fra uno specialista e un altro, gli hanno diagnosticato un osteosarcoma. Purtroppo in fase avanzata, perché la malattia nel frattempo era progredita. «All’inizio contavo le ore, poi i giorni, le settimane... Mi pareva un incubo senza fine. Volevo vivere e lottare. A volte, però, avrei pagato qualsiasi prezzo pur di tornare a casa e dagli amici a Foggia», racconta oggi che è un 21enne sano e si è lasciato tutto alle spalle. «Sono stati mesi durissimi: mamma sempre con me a Bologna, papà giù con mio fratello maggiore, che aveva 16 anni, e i due più piccoli. Per otto mesi, però, anche lui ha vissuto con noi in casa-famiglia, perché sembrava che io non ce la facessi e potevano essere i miei ultimi giorni. I miei fratelli stavano con gli zii. E Poi le vacanze di Natale o d’estate venivano da me per stare tutti insieme… Sai che allegria!».
ITALIA ARRETRATA - Avere una alloggio, piuttosto che un letto in ospedale e un hotel per i parenti, è un grande vantaggio. Hai un po’ di privacy: il tuo bagno, la cucina dove mamma può preparare i piatti che preferisci, insomma, ti senti almeno un po’ a casa. «Peccato che sia un privilegio per pochi – dice Alberto Ugazio, direttore del Dipartimento di medicina dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e presidente della Società italiana di pediatria -.
Pur garantendo cure d’avanguardia, l’Italia è indietro sul fronte dei servizi socio-assistenziali offerti ai bambini oncologici e alle loro famiglie, molti dei quali gravano ancora sulle spalle delle associazioni dei genitori. Mentre negli altri Paesi europei sono forniti dallo Stato». Sono le associazioni che spesso si fanno carico, con i fondi che riescono a raccogliere, anche delle carenze di organico dei reparti di oncologia pediatrica, fornendo borse di studio a medici, psicologi e ricercatori specializzati.
«A differenza del Nord Europa o degli Usa - spiega Ugazio - da noi ancora non c’è una rete diffusa di case-albergo per consentire al massimo la de-ospedalizzazione dei piccoli pazienti. Ci sono case albergo solo vicino ad alcuni grandi ospedali pediatrici». Quante? Impossibile dirlo con precisione: non esiste un censimento ufficiale né uno standard qualitativo uniforme. Alcune sono vicinissime ai centri di cura, altre meno. Ciascun reparto oncologico, con l’aiuto delle associazioni presenti sul territorio, fa quel che può.
INSIEME ALL’ANSIA LIEVITANO LE SPESE - Occhi azzurri, capelli nerissimi, Maria era una quindicenne come tante quando si è trovata a fare i conti con la leucemia. È arrivata a Firenze dalla Romania con la mamma, raccontano i medici, e nessuna delle due parlava italiano. La lingua l’ha imparata, nei quattro anni in cui è dovuta rimanere qui, tanto che poi ha proseguito gli studi di ragioneria dalla casa-accoglienza in cui ha alloggiato finché la malattia non ha vinto. Le avevano dato un computer, per tenersi in contatto con gli amici, e il padre veniva quando poteva: il viaggio è lungo, costoso e loro erano poveri.
«Insieme al dolore, fra tutti i problemi che le famiglie si trovano ad affrontare quelli economici sono i più pressanti, perché le spese lievitano». La lunga esperienza di Pasquale Tulimiero, presidente della Fiagop (Federazione Italiana Associazioni Genitori Oncoematologia Pediatrica), non lascia dubbi: oltre ai costi strettamente legati alle cure, ci sono viaggi, alloggio, famiglie divise con costi che raddoppiano, poiché anche chi resta a casa (di solito il padre, con uno o più altri figli) è solo e in molti casi serve una baby-sitter, una donna delle pulizie, qualcuno che dia una mano.
«E poi c’è la questione lavorativa - continua Tulimiero -: trafile burocratiche e visite in ospedale bruciano prima le ferie, poi i vari permessi. Se i dipendenti almeno sono tutelati, per liberi professionisti, artigiani, commercianti e precari la perdita del lavoro è spesso un incubo che si avvera». Il risultato? Un genitore su quindici viene licenziato a causa delle prolungate assenze fatte per assistere il figlio.
SE LA COPPIA, O LA FAMIGLIA, SCOPPIA – Il denaro, però, come sempre non è tutto. Quando si parla di tumore, specie se colpisce un bambino, ci sono i problemi affettivi e le difficili reazioni-relazioni fra genitori, figli, fratelli, amici. «Ne ho viste tante, in questi anni nelle corsie d’ospedale, di coppie andare in pezzi – racconta Silvia Tedesco, mamma fondatrice dell’associazione Settimo Piano, che prende il nome dal reparto di pediatria dell’Istituto Tumori di Milano -. Colpa dello stress psicologico, della fatica, delle distanze, di quei complessi meccanismi che è facile vadano in frantumi davanti a un figlio che soffre».
La parola d’ordine, secondo gli esperti, è dialogo: nel nucleo familiare, con amici, vicini, parenti, compagni di scuola meno segreti ci sono da gestire meglio è. E anche i diretti interessati, se possibile, devono sapere esattamente che cos’hanno. «Papà, ma io posso morire? Ha chiesto ieri sera a cena Luca, cinque anni, malato di leucemia mieloblastica. I bambini devono poter condividere dubbi e angosce – chiarisce Momcilo Jankovic, responsabile del day hospital di ematologia pediatrica all’ospedale San Gerardo di Monza – e i genitori devono poter delegare o essere preparati a rispondere». Il dialogo è fondamentale per superare i molti momenti difficili. E per tornare, appena possibile, alle loro abitudini quotidiane. I ragazzi che si ammalano di tumore non vogliono essere tagliati fuori dal mondo nè tenuti nella bambagia. «Meglio coinvolgerli nel progetto di cura – prosegue Jankovic – e farli tornare a scuola, perché questo per loro significa tornare alle vita normale».
CURARSI A CASA? ANCORA UN MIRAGGIO - Una casa-accoglienza, un mini-appartamento, la de-ospedalizzazione (o meglio ancora, le terapie domiciliari) possono cambiare la qualità di vita dei giovani malati e delle loro famiglie. «Come Aieop e con l’aiuto delle associazioni di genitori – dice Dini – abbiamo cercato di creare almeno un centro d’accoglienza per regione, ma molto resta da fare».
L’idea, secondo l’esperto, potrebbe essere quella di estendere il modello del Gaslini di Genova a tutti i centri «come è successo 30 anni fa con i day hospital. Il vantaggio sarebbe anche economico, per il Servizio sanitari nazionale: secondo la nostra decennale esperienza, infatti, se una giornata di ricovero di un bambino costa duemila euro, per il day hospital si spende la metà». Dopo il ricovero, a Genova, alcuni pazienti vengono dimessi e tornano in ospedale per la chemioterapia in day hospital.
Altri la fanno a casa. Certo serve personale qualificato: medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti dei reparti che si muovano anche sul territorio. «Le equipe territoriali nelle Asl già esistono – aggiunge Ugazio - , ma vanno incrementate. Abbiamo una rete ospedaliera pediatrica molto antiquata, troppe piccole pediatrie con poco personale e poco efficienti, e grandi pediatrie con carenze di organico. Le piccole andrebbero raggruppate e l’organico ridistribuito».
L’assistenza domiciliare, sottolineano gli esperti, serve anche per accompagnare gli ultimi momenti di vita dei bambini più sfortunati: «Sul fronte hospice e cure palliative in pediatria – conclude Ugazio – siamo ancora più indietro. E’ un argomento di cui nessuno vuole parlare, a scapito dei bimbi e dei genitori, per i quali sarebbe una seppur minima consolazione il fatto di poter vivere gli ultimi giorni a casa propria».
SOSTENERE LA RICERCA – Il 15 febbraio 2010 è stata celebrata in 73 paesi nel mondo l’ottava Giornata Mondiale contro il Cancro Infantile, quest’anno dedicata alle neoplasie cerebrali. Fiagop indice un concorso pubblico per l’assegnazione di una borsa di studio di durata biennale e lancia la campagna L’Amore Cura con l’obiettivo di reperire i fondi necessari alla sua realizzazione.
fonte: corriere.it
articolo di Vera Martinella della Fondazione Veronesi
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