La sifilide (detta anche “lue” o, tenendo conto delle sue origini, “mal francese” o “morbo celtico”) è una grave malattia infettiva determinata dall’introduzione nell’organismo di un batterio chiamato “treponema pallido” o “spirocheta pallida”. Nonostante si sia, per fortuna, ben lontani dal numero di casi di sifilide che si ebbero prima della seconda guerra mondiale, ultimamente questa infezione sta facendo registrare un aumento della sua diffusione. Tale osservazione, peraltro, non vale solo per i Paesi meno sviluppati: allarmanti, in proposito, sono dei dati recenti relativi ad alcuni quartieri periferici della capitale francese. Attualmente, dopo l’AIDS, è reputata la malattia sessualmente trasmissibile al secondo posto per il numero di decessi ed è particolarmente temibile anche perché, attraverso le tipiche manifestazioni cutanee della sifilide, cresce notevolmente il rischio di contrarre l’AIDS stesso da una persona sieropositiva.
Come si trasmette
La sifilide è considerata una delle malattie sessualmente trasmissibili proprio perché si contagia prevalentemente mediante rapporti sessuali, anche incompleti (compresi quelli orali e rettali). In realtà, fin dai primissimi momenti della presenza dell’agente patogeno, non è raro che questo attacchi chiunque entri in contatto con l’epidermide del malato, specie nei punti dove si sono formate le piaghe, le ulcere o le eruzioni cutanee, tipiche dei vari stadi di evoluzione della sifilide. Un altro modo per contrarre la malattia de quo è la gestazione, il parto o l’allattamento da parte di una madre infetta. Le probabilità che il feto non arrivi neppure a vedere la luce (circa il quaranta percento dei casi) oppure che risulti affetto da sifilide, magari manifestandone i segni in un momento successivo (circa il settanta percento dei casi), dipende dalla gravità e dalla fase in cui si trova la donna. E’ da precisare, peraltro, che, il bambino subisce dei rischi consistenti di sifilide congenita anche se l’infezione ha colpito la madre fino a ben quattro anni prima della gravidanza.
Quali sono i sintomi
I sintomi della sifilide iniziano a comparire, in genere, solo dopo tre-sei settimane dal contagio e fanno registrare un’evoluzione in diverse fasi progressive assai dilatate nel tempo, in maniera tale da ricordare in parte l’AIDS. Mentre nel primo stadio il sintomo pressoché esclusivo è la comparsa, a livello genitale (e, a volte anche sulla bocca) di un’ulcera, detta “sifiloma”, la quale produce un siero altamente contagioso, è il secondo stadio, che subentra a distanza di circa sei settimane dal primo, a rappresentare il momento in cui i sintomi diventano davvero fastidiosi. Possono aversi, infatti, rialzo febbrile, mal di testa e gonfiore ai linfonodi, oltre alla comparsa dei c.d. “sifilodermi”, ossia delle macchie dal colore rosaceo, diffuse sulla pelle, che scompaiono autonomamente dopo alcune decine di giorni. L’inizio dell’ultima fase della sifilide è preceduto quasi sempre da un periodo per così dire “silente”, in cui, nonostante non vi siano evidenti segni della malattia, il batterio resta insediato nell’organismo e può dar luogo a un’improvvisa recrudescenza della patologia. Nella terza fase, oltre a delle tipiche lesioni cutanee (c.d. “gomme luetiche”), le manifestazioni sono solitamente molto preoccupanti e possono coinvolgere organi di vitale importanza, come fegato, ossa, articolazioni e perfino il cervello e il cuore. Se non curata tempestivamente, la sifilide può portare a forme di paralisi, anche irreversibili, e, nei casi più gravi, alla morte.
Come prevenire e combattere la sifilide
L’unico modo per essere certi di non contrarre la sifilide (a parte i casi di sifilide congenita), è quello di evitare contatti cutanei, soprattutto con le zone epiteliali coperte dalle vesciche purulente; l’uso del preservativo in lattice, infatti, pur salvaguardando la persona sana nella stragrande maggioranza dei casi, non rappresenta una modalità del tutto sicura. Tanto premesso, una volta che insorge anche solo il dubbio di essere entrati in contatto intimo con un malato, è bene rivolgersi a uno specialista: quanto più le cure sono tempestive, tanto più aumentano le possibilità di debellare il “treponema pallido”. I controlli diagnostici da effettuare all’uopo, che in genere implicano un prelievo sanguigno (dal cordone ombelicale, qualora il rischio riguardi il feto), sono numerosi e la medicina suole distinguerli in due branche: quelli treponemici e quelli non treponemici. I primi, tra cui ricordiamo il TPHA (Treponema pallidum Haemoagglutination) e il FTA-ABS (Fluorescent Treponemal Antibody ABSorption), sono i più attendibili, in quanto costituiscono l’unico modo per rilevare la presenza del batterio già nelle primissime settimane di contagio e anche dopo una terapia farmacologica efficace. A proposito di quest’ultima, la terapia maggiormente utilizzata al giorno d’oggi è quella antibiotica; solitamente si affiancano a una cura di penicillina di tipo G (procaina e benzatinpenicillina), dei preparati a base di bismuto.
fonte: lasaluteinpillole.it
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