Luciano Ligabue ha 52 anni, una maglietta, un paio di jeans e gli stivali, quella faccia da indio che conosce le erbe medicamentose e se gli dici dove ti fa male ti dà in silenzio la ricetta: un verso di una canzone, un bicchiere di vino, un punto da cui guardare il cielo di notte, un sorriso breve. Cammina per Correggio e saluta i vecchi fermandosi a parlare con loro in dialetto, si vede – si sente – che questo posto è il suo posto (...).
In questa intervista, cominciata in una soffitta mentre faceva buio e finita a tavola con i ragazzi della band a parlare del prossimo concerto alla Royal Albert Hall di Londra, a maggio, del prossimo disco, in autunno o «quando verrà», si è parlato di musica e di libri, di politica e di calcio, di cinema, di donne e di droghe, di successo e di solitudine, di vita e di morte.
Molto, di morte. Di quella del padre, di cui parla in prima persona in Lo vuole vedere?, il più amato dei capitoli del nuovo libro di racconti Il rumore dei baci a vuoto. Di quella dei suoi figli non nati, «un lutto che non trova posto». Di quella, per Aids, dello scrittore Pier Vittorio Tondelli, una notte d’inverno, nella stessa casa dove Ligabue non riusciva a dormire, due piani più sotto.
Dell’amore, che è l’unico modo per fregare la morte. Della timidezza, «che io sono proprio timidissimo, sa?». Della lentezza, che serve. Perché «quando Paolo Casarini, che era il mio prof di Lettere a Ragioneria, ci disse: "Ragazzi se qualcuno di voi ha un’ambizione da coltivare questo è il momento", io sentii che stava proprio parlando con me. Ma poi per trovare la voce della mia voce ci ho messo dieci anni. Se legge i miei libri? Non lo so, devo chiederglielo. Di sicuro ascolta le mie canzoni».
«Un po' sì. I miei sono stati insieme tutta la vita con gioia. Persone semplici, vitali, capaci di stare con gli altri. Papà l'ho perso nel 2001. Diceva: dopo i 70 ogni anno è regalato. È morto a 71. Tumore all'intestino. Quattro mesi dalla diagnosi. Io stavo girando un film, Da zero a dieci. Ci siamo parlati più in quei mesi che in tutta la vita. Lui era un Ariete, testosterone puro, reattivo, io Pesci, faceva fatica a capire questo figlio che parlava poco, non capiva nemmeno cosa volesse dire essere timido. Ci siamo visti, in quei mesi. Mia madre, dopo, sembrava che volesse morire anche lei. Poi si è attaccata a mio figlio Lenny, e dopo è venuta Linda».
«Provo, davvero. Lenny non vive con me, Linda sì. È molto diverso. Lenny ora è un adolescente, ha un grandissimo talento musicale, a due anni teneva il tempo dei Nirvana con le bacchette, ha molto più orecchio di me, vuol fare da solo, naturalmente. Linda ha sette anni, è vanitosa, ingenua, molto popolare fra le amiche. Li amo. Ne avrei voluti altri, di figli. Tanti. Ne ho persi tre. Due nel passato, uno pochi anni fa da Barbara, la madre di Linda. Al sesto mese di gravidanza. Un lutto che non trova casa, nessuno lo considera un vero lutto (...)».
Intervista di Concita De Gregorio - L'intervista completa sul numero di Vanity Fair in edicola dall'11 aprile 2012
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