Ma vengono prima, per la legge, i diritti dei bambini abbandonati o quelli degli aspiranti genitori? È quello che ti domandi leggendo sul sito dell'associazione «La Gabbianella» la testimonianza di Claudio e Cinzia che, come scrivono, sono stati «trafitti a tradimento da una brutta storia di affido».
Al centro di questa storia c'è una piccola, Micha, dalla vita travagliata: i primi due mesi (disastrosi) coi genitori naturali, poi in ospedale per denutrizione, poi in «parcheggio d'urgenza» presso una famiglia finché, al sesto mese, viene data in affido a Claudio e a sua moglie. Coi quali resterà per quindici mesi. Felici. A un certo punto, un giudice del Tribunale dei minori, evidentemente informato di come sta crescendo la piccola, chiede ai due se abbiano pensato all'adozione. Claudio e Cinzia sanno di avere qualche anno in più rispetto a quelli previsti dalla legge per chi adotta figlioletti così piccoli. Ma il giudice spiega loro che «si potrebbe procedere verso una adozione speciale/nominale».
Neanche il tempo di sperarci e arriva la doccia fredda: Micha andrà in adozione a un'altra famiglia. I due non capiscono: «Il pediatra si arrabbia quando lo informiamo, dice che dobbiamo prendere un avvocato, questa bimba ha già sofferto tanto nella sua breve vita, ora ha raggiunto un equilibrio, un ulteriore passaggio in un'altra famiglia sarebbe distruttivo. Dice che, se veramente le vogliamo bene, dobbiamo fare di tutto affinché Micha resti dov'è». Portando a sostegno varie testimonianze, cercano di spiegare al presidente del tribunale che la cosa non ha senso e potrebbe danneggiare la bimba: Risposta: «Vi ringraziamo per quello che avete fatto, l'adozione speciale è prevista in casi particolari, questa bambina ha migliori opportunità di vita, ci sono coppie che hanno una domanda di adozione da tre anni quindi con più diritti di voi». Ma come: i diritti di una coppia che desidera un figlio, per quanto diritti legittimi, vengono prima di quelli della creatura che è in ballo? Per carità, magari l'inserimento della piccola si rivelerà alla lunga positivo (l'inizio, a leggere Claudio e Cinzia, è stato traumatico), ma il tema resta: andava privilegiato il bene della bambina o i diritti degli aspiranti genitori? E non sarebbe opportuno un po' di buon senso, in casi come questi, per evitare questi traumi ai piccoli? Il guaio è che di casi così ce ne sono diversi.
Prendiamo quello di Mathias raccontato da Daniela Assembri: «Durante le feste di Natale del 2005, sono passata dagli uffici dei Servizi sociali del Comune della mia città ed ho chiesto se c'era un bambino che ... avesse bisogno del calore di una casa, per Natale. Avevo già avuto due esperienze di affido e in quegli uffici mi conoscevano. L'assistente sociale mi ha subito proposto un bambino nato da pochi giorni e ancora ricoverato nel reparto maternità dell'ospedale. La giovane famiglia aveva dei problemi. Ho detto di sì con entusiasmo. Mi avrebbero fatto sapere. A metà gennaio 2006 mi confermano l'affido. E così due operatrici dell'Ufficio minori mi portano a casa Mathias, avvolto in una copertina; mi danno alcuni ragguagli sul latte e sugli incontri da fare con i genitori e se ne vanno». Da quel momento, per due anni abbondanti (i due anni fondamentali per la vita di un bambino, quelli in cui impara a camminare, parlare, mangiare, giocare...) lo Stato mostra di fidarsi ciecamente della donna, che è single e vive da sola, senza un marito o un compagno. Una delega piena, totale: «Le assistenti sociali non sono mai venute a casa mia, non hanno mai visto l'ambiente di Mathias, il suo gatto, i suoi giochi, le persone che mi hanno aiutato ad allevarlo (in particolare mio fratello) o che lo hanno tenuto con tanta attenzione e affetto (i miei cari amici)». Finché il giudice decide che il bimbo «parcheggiato» dalla signora Daniela (la quale per lui ha fatto mille rinunce adattandosi all'incertezza burocratica: «Gli compro già il lettino o basterà la carrozzina? E il box? E il girello? E un seggiolino più grande per l'auto? E un nuovo passeggino? E le vacanze? E il mio ritorno al lavoro dopo la maternità? E l'eventuale iscrizione all'asilo?») va dato in adozione. A Daniela?
Neanche a parlarne: Mathias le sarà anche affezionato e lei si sarà spesa l'anima per essere una buona mamma, ma santo cielo: non è sposata! Non ha un marito! Per lo Stato va bene come parcheggiatrice, non di più. Ha tirato su lei il bambino e passato lei le notti in bianco quand'era malato e gli ha insegnato lei a dire «mamma» e gli ha mostrato lei la prima volta la luna? Stia al suo posto! E poi tutte quelle domande alle assistenti sociali: cosa sarà del bambino? Dove andrà? La nuova mamma e il nuovo papà sono a posto? Gli vorranno bene? Diamine: non son mica fatti suoi! Conclusione: il piccolo viene tolto a quella che fino a quel momento è stata sua mamma praticamente senza un passaggio delle consegne: «Non ho mai incontrato la famiglia adottiva, pare che sia stata la famiglia stessa a non volermi conoscere».
È giusto così? Vale per Daniela la single, vale per famiglie tradizionali in senso pieno. Come quella, racconta il sito della Gabbianella (www.lagabbianella.org) che accolse la piccola A. e i suoi fratellini: una coppia con «ben cinque figli naturali, che per undici anni ha accolto in affidamento dei bambini, accompagnandoli poi verso altre famiglie adottive o nella loro stessa famiglia naturale». Anche questi genitori «usa e getta»: utilizzati dallo Stato per parcheggiare i tre fratellini e poi scartati per l'adozione di A. (affidata loro quando aveva meno di due mesi) nonostante il parere contrario del Tutore dei minori e del neuropsichiatra, entrambi schierati perché la bimba non venisse spostata dall'ambiente in cui era cresciuta.
Per questo «La Gabbianella» presieduta da Carla Forcolin, autrice di più libri sul tema (uno per tutti: Io non posso proteggerti) ha avviato una raccolta di firme per chiedere ai parlamentari un ritocco, messo a punto dall'avvocato Lucrezia Mollica, alla legge 184/83 che regola la materia: «Qualora l'affidamento di un minore si risolva in un'adozione, a causa del mancato recupero della famiglia d'origine, vanno protetti i rapporti instauratisi nel frattempo tra affidati e membri della famiglia affidataria. Va quindi favorita la permanenza del bambino nella famiglia in cui egli già si trova; ove ciò non sia possibile, va comunque tutelato il mantenimento di un rapporto affettivo con la famiglia affidataria, nelle forme e nei modi ritenuti più opportuni dagli operatori, dopo aver ascoltato la famiglia affidataria stessa e la futura famiglia adottiva». Buon senso. Solo buon senso.
Se volete saperne di più: www.lagabbianella.org
fonte: bresciaincontriamoci.blogspot.com