Antonio Polito, lei è un padre che scrive un libro contro i papà. Cos'è che non va?
«Tutto è iniziato negli anni Cinquanta quando si è passati dal genitore-padre al papino, il papi, l'amicone di oggi».
Perché si è persa l'identità e la differenza dei ruoli tra padre e figlio?
«Colpa del benessere, dell'epoca d'oro. Io stesso sono un baby-boomers, sono del '56 e ho vissuto il boom tra la fine dei '70 e gli '80. Ho conosciuto la mangiatoia bassa e appartengo alla generazione che pensa: meglio di noi, i figli».
Solo colpa del benessere?
«No. Anche della contraccezione. C'è una profonda differenza tra un figlio "venuto" e un figlio "voluto"».
Qual è?
«Il secondo è considerato come un investimento in borsa. E lo si programma solo quando si è sicuri di potergli dare tutto ciò di cui ha bisogno».
Benessere, contraccezione e poi?
«Le ideologie del Novecento che hanno introdotto i criteri della deresponsabilizzazione individuale».
Se ciò che non va non è colpa del singolo, di chi allora?
«Della società, dei traumi, delle circostanze. Dal freudismo al marxismo è tutta una deresponsabilizzazione del singolo».
Che invece è fondamentale per le sue azioni.
«Le cito una lettera di Montaigne indirizzata ad una signora a proposito degli studi del figlio, in cui il filosofo fa la differenza tra la coltivazione e la correzione».
La spieghi.
«Coltivare è semplice. Si getta il seme e si aspetta il frutto. Correggere è altra cosa. Ecco, io sostengo che abbiamo smesso di credere nel valore della correzione, del rimedio all'errore che fa crescere meglio».
I ragazzi si adagiano sulla compiacenza dei «papini». C'è del dolo?
«Le faccio l'esempio del copiare in classe. Attività che rivela la nuova cultura dei genitori e la pigrizia dei docenti. Il messaggio che passa è: copiare si può».
Non si deve invece.
«Negli Stati Uniti se copi il compito in classe, gli altri studenti si alzano in piedi e denunciano la rottura di un codice di comportamento interno alla scuola. Da noi copiare è una cosa figa».
Dal copiare in classe al posto di lavoro, per i ragazzi è tutta una vita in discesa?
«In Italia il 38 per cento trova lavoro attraverso la famiglia, la raccomandazione, gli amici, i parenti. In Europa ci si rivolge ai centri per l'impiego e solo il 2/3 per cento trova lavoro grazie a papà. E vicino casa».
Meglio andarsene lontano?
«Avere i figli che studiano e lavorano di fronte casa è una grande illusione che contribuisce alla deresponsabilizzazione. In Italia non abbiamo avuto la rivoluzione protestante, i papà sono i sindacalisti dei loro figli e dopo il '68 siamo stati vittima di un sociologismo ingannevole».
Prima del '68, c'erano ruoli distinti, gerarchici ed anche una istruzione per censo. Che fa rimpiange i tempi andati?
«Io non rimpiango per niente il pre '68. Il rapporto padre-figlio non si basa solo sulla punizione che, soprattutto se legata all'umore del genitore, viene vissuta come una ingiustizia. No al padre-padrone. Ma il '68 ha generato un effetto paradossale».
Quale?
«Che i figli di quell'epoca votano a destra. E così il '68 ha prodotto l'effetto opposto rispetto al suo obiettivo».
Parliamo del lavoro dei giovani. E' giusto aspirare solo a posti adeguati al proprio livello di istruzione?
«Le cito Luigi Einaudi e le sue Prediche inutili in cui sosteneva che la disoccupazione intellettuale non esiste perché non è detto che da un anno all'altro servano gli stessi ingegneri o dottori in legge. Per questo voleva l'abolizione del valore legale del titolo di studio. E poi, diciamoci la verità: le università e le lauree non sono tutte uguali, ci sono quelle che valgono e quelle che non valgono niente. Inoltre è inutile insistere a cercare posti nella pubblica amministrazione».
Un buon vademecum per i genitori?
«Nel libro riporto un'altra differenza. Quella tra padre accuditivo e padre etico. Il primo protegge, è garante del narcisismo del figlio. Dichiarandosi fratello del figlio ne assume la protezione. Ma questo è un falso nella relazione».
Meglio imparare a dire qualche no?
«Meglio farsi ascoltare, ma i tempi del dialogo sono sempre più stretti».
Colpa anche di cuffiette e videogiochi?
«La connessione è un bene. Oggi un guerriero masai con il suo smartphone ne sa più di un presidente degli Usa di 25 anni fa. Ma certo, le relazioni si complicano».
Come?
«Pensi al valore di un'amicizia. Oggi si diventa amici cliccando "mi piace" su Facebook. Ma l'amicizia non è spingere un bottone».
Bamboccioni per Padoa Schioppa, sfigati per il sottosegretario Martone, choosy per la ministra Fornero. Lei quando vede un ragazzo a cosa pensa?
«Mi piace una definizione per i padri che ho trovato su lavoce.info: babboccioni. Quelli dal reddito più alto si tengono i figli in casa fino a 30 anni, li fanno vivere entro i 10 chilometri da loro. E ripeto: non è una questione di welfare familiare».
Fenomeno solo italiano?
«Sì. Lo dimostrano anche gli italoamericani che a differenza degli americani ripetono questo schema culturale».
Nel libro, tanti riferimenti che supportano la tesi di fondo. Di alcuni abbiamo parlato, altri li accenniamo soltanto. La frase di un film?
«In "paradiso amaro" George Clooney dice: dare ai figli abbastanza per fargli fare qualcosa ma non abbastanza per non fargli fare niente».
Paolo Mieli ha detto: ai figli, meno case e più libri. E' d'accordo?
«Sì. Noi abbiamo pensato a dare la casa perché ritenevamo che l'istruzione fosse gratis. Non è così. Ho vissuto in Inghilterra e lì la migliore istruzione è a pagamento. Come negli Usa. E vorrei vederli lì i fuoricorso».
Cervelli in fuga?
«Lasciamoli in pace».
Considerazione finale?
«Dalla teoria evolutiva. Quella umana è l'unica specie che partorisce (con dolore) un figlio incapace di badare a se stesso. Ciò accade perché con il passaggio da quattro a due zampe, si è ristretto il canale del parto. Contestualmente c'è stata la crescita del cervello, diventato enorme rispetto a quel canale. Ecco perché la soluzione evolutiva è stata quella di farci partorire a nove mesi figli che in realtà ne avrebbero bisogno di ventuno per essere autonomi. E da lì iniziamo. Ad accudirli».
Carmine Festa - Corriere.it