"Un bellissimo testo che racconta la pienezza e la difficoltà del diventare papà e dell'essere padre. Riferimenti vari, fanno di questo testo, un pezzo davvero intenso (la Redazione)"
Tre sono i mestieri che Freud dichiarò impossibili, uno di questi è l’educatore, il secondo è il mestiere di padre.
Che David Cameron se ne esca dicendo che i genitori che abbandonano i figli sono come ubriachi al volante, è educativo quanto inane.
Chamfort potrebbe rispondergli che l’amore è un rasoio nelle mani di un cieco: certi genitori non mollano i figli per un secondo credendo di raddrizzarli, in realtà li stanno selvaggiamente amputando.
La paternità non è una professione ma un’arte.
Non dal sapere origina ma dal Dio che sta in ciascuno di noi, e nel mistero la paternità esiste, un mistero cui occorre a ogni istante porgere orecchio, mistero a momenti gaudioso in altri doloroso ma sempre glorioso. Mistero ma anche incessante epifania che ciascun padre ha modo di esperire.
Anch’io come tutti avevo letto libri di scienza e di storia e altre notizie m’avevano dato gli amici, la vita, la tivù. Ma ora solo quando mia figlia le dice, vere mi paiono le cose del mondo, quiete e fatali.
Cameron e Obama bollano i papà fuggiaschi, ma accusandoli non li si riporterà dai figli. Non è una sciatta questione morale ma la fulgida etica del capitalismo.
La regola dell’economia paterna è una sola: non risparmiarsi mai, inoltrandosi senza timore nella tenebrosa doppia contabilità: quel che un figlio dà con l’altra mano toglie.
Ma c’è un’altra partita, ancora più misteriosa: quel che tu gli dai ti resta a vita.
L’audacia è l’emblema della paternità, sottrarvisi non è solo roba da depravati e da alcolisti, è un calcolo, e come ogni calcolo è misero.
L’uomo più sensibile della terra, Rainer Maria Rilke, abbandonò la figlioletta in fasce e duramente pagò con lunghi anni di silenzio; solo in prossimità della morte gli fu restituita l’ispirazione per concludere le “Elegie duinesi”. La figlia ebbe pena di lui e angelicamente tornò nella sua parola.
Un figlio non ti lascia mai anche se tu lo lasci, anche se fai di tutto per non pensarlo, se ti ubriachi e uccidi, anche se ti uccidi lui è sempre lì, davanti a te, a dirti: padre, non vedi che brucio? D’amore, innanzitutto, di quella febbre che passi notti e notti a misurargli e a cercare, invano, di spegnere con la tachipirina. E’ la tua febbre, padre! Rischio d’impresa.
Mai si pensi che mettere al mondo un figlio significhi mettersi in casa una fonte inesauribile di piacere, una rendita fissa di bacini, una giustificazione al presente e una polizza per il futuro. Mettere al mondo un figlio è mettersi in casa la paura.
Il figlio cresce, la paura cresce. Il figlio se ne va, la paura resta. I passi si fanno ogni giorno più incerti e infine anche noi ce ne andiamo. Folate di vento entrano dai vetri rotti. Ma nella ragnatela del tempo, nell’angolo che non si chiude, dove terminava la spalliera del letto e la fronte schiacciando il cuscino cercava di stordirsi, lei, nera con gli occhietti rossi, lei è sempre lì, la paura.
Un sentimento assai produttivo che va accolto affinché non divenga viltà; tutto va accolto del figlio, pena finire maledetti come il barone Frankenstein che quando vide la Creatura la giudicò inferiore alla propria aspettativa e ebbe un moto di ribrezzo.
Tutto si guastò nella sua troppo nobile esistenza.
Le cose che acquistano valore sono quelle di cui ti prendi cura, giorno per giorno. Sono alcuni piccoli gesti decisi e previdenti, direttamente ispirati da Dio, a far punteggio per il paradiso: la tua giacca veloce sul suo capino alla prima goccia di quella pioggia che ancora sta a mezza strada tra il cielo e la terra…
Umberto Silva, Il Foglio, 21 giugno 2011