Un bambino chiede al mondo: perchè sono cresciuto lontano dal mio papà? In questo capitolo del libro del dott. Vezzetti (BookSprint edizioni) il mondo gli risponde. “Nel nome dei figli” è il primo romanzo-thriller italiano interamente ambientato nei meandri del Diritto di Famiglia.
Un ritratto dell'Italia attraverso gli occhi dei bambini, la crisi della famiglia, il mondo dei tribunali.
Il primo romanzo italiano interamente ambientato nei labirinti del Diritto di famiglia.
L’autore, esperto riconosciuto nel campo della tutela legale dell’infanzia, ha voluto abbracciare in modo originale il pubblico più vasto possibile elaborando un testo con diversi piani di lettura.
Un primo piano, elementare, basato sul racconto ricco di colpi di scena derivati dall’immaginario patto di sangue tra un anziano legale e un giovane cliente.
Un secondo piano, più complesso, rivolto ai genitori separati e ai professionisti del settore che potranno apprendervi molti dettagli innovativi.
Un terzo piano legato alla riflessione su temi eterni quali il contrasto giustizia assoluta-giustizia degli uomini, quello fra libero arbitrio e destino prederminato, il rapporto uomo-donna nella famiglia e nella società.
Nel nome dei figli, di Vittorio Vezzetti, Booksprint edizioni, 418 pag., 15 euro. ISBN 978-88-6595-0418
-È colpa tua, papà: sei tu il responsabile della tua assenza. È colpa tua se io son diventato grande senza di te-.
-No- dice il padre- A cavallo del mio mustang io son venuto tutte le volte che il giudice aveva previsto. Io mi sono sempre presentato alla tua porta. Col sole e con la pioggia. Saltando i crotali ed evitando i coyote. Sono andato in caserma e ho fatto le denunce; ho guadato il grande fiume; mi sono azzardato nel territorio degli indiani; sono anche venuto coi gendarmi, ma non c’è stato niente da fare: quella porta non si è mai aperta. E intanto un saguaro mi cresceva nel cuore. No, quella porta non si è mai aperta. E non per colpa mia. Perché io ho implorato il mondo di aprirla, quella porta. Ho pregato Dio. Mi son sentito morire cento, mille volte. Ma da solo non potevo. Anche se sapevo che dietro c’eri tu.
-Allora è colpa vostra!- dice il figlio ai gendarmi - è colpa vostra che sapevate e non avete fatto niente!-
-Ma cosa potevamo fare noi, dovevamo abbattere quella maledetta porta? Per metterti fra le braccia di tuo padre? Non ci si può arrampicare su un cactus. Siam venuti tante volte, anche con lo sceriffo Joshua… abbiamo attraversato il deserto… e… avremmo potuto, sì, far rispettare la legge, ma tu ne saresti stato traumatizzato; e poi il giudice Brown ci avrebbe sgridato. Sgridato, sì… Anche se era stato proprio lui a emettere il provvedimento… No, noi non ne abbiamo proprio colpa. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Fin dove potevamo. Abbiamo sempre confortato tuo padre, gli abbiamo dato i moduli per le denunce e gli abbiamo offerto il whisky e il sigaro in caserma. Ma di più, credici figliolo, di più non potevamo. E’ difficile buttare giù una porta, ancor di più se aldilà c’è un bambino. La colpa è di chi quella porta l’aveva chiusa-.
-E’ colpa tua, mamma! Tu avevi chiuso quella porta.
-No, la colpa non è mia, cucciolo: io ho fatto quello che la giustizia mi consentiva di fare: la prova è che nessuno, neanche lo sceriffo, si è azzardato a buttarla giù, quella porta. Anche perché nessuno, credimi tesoro, si è mai presentato a prenderti. Nessuno è mai venuto qui al ranch. D’altronde il mio avvocato me lo aveva detto: le porte nel nostro grande paese non si buttano mai giù. Stia tranquilla signora, che è in una botte di ferro. Neanche il più forte dei bisonti sarebbe in grado di fare breccia. Il mio avvocato me l’aveva detto. E ha avuto ragione.
-Quindi è colpa tua avvocato!
-No, io faccio il mio mestiere e il mio mestiere può essere anche, talora, quello di esasperare le persone; anche solo per ottenere un atto squilibrato. Ma io ho semplicemente dato un consiglio. Tua madre lo ha accettato. Poteva anche non farlo. In fondo, le mie, erano parole scritte nella sabbia del deserto. Io ho solo cercato di far ottenere alla mia cliente, a tua madre, il massimo tornaconto. Per quello ho studiato. Per quello sono pagato. Su quello ho giurato. Io non sono un cow boy, io non ferro i cavalli: ho agito sulla base di quello che ho imparato essere il modo di ragionare del giudice. Su quello ho modellato i miei pareri. Esattamente come le pareti friabili del canyon sono state modellate dai venti dell’altopiano. E non ho sbagliato: prova ne sia che lo psicologo del Tribunale ti ha messo sempre nelle mani di tua madre. Perizia dopo perizia. Denuncia dopo denuncia. Dollaro dopo dollaro-.
-Allora è colpa tua, psicologo!
-No. Io sono solo il Consulente del Tribunale. Seguo il vento della prateria. E spesso, nel più recondito angolo del mio animo, soprattutto alla sera quando sono solo di fronte al mio whisky, mi sento il lacchè del giudice: io devo dire ciò che il giudice vuole sentirsi dire. Altrimenti non verrò più chiamato nei Tribunali e perderò tanti dollari. Ma non dirlo a nessuno, ragazzo. Ho anch’io una dignità. No. Non è colpa mia se non hai più visto tuo padre: io ho espresso un parere e sono pagato per questo. Un bambino non ha padre. Ha solo una madre. E a percorrere sempre la stessa traccia, si suda meno e non si sbaglia mai. Come le carovane nel deserto, ragazzo. Le carovane che vanno a Tucson. Ma io non sono un magistrato: è il giudice Brown che infine decide, non io. Se tua madre non ti ha consegnato venti, quaranta, cento volte a tuo padre, io non posso farci niente. Io non potevo verificare chi dei due diceva la verità: non sono mica un giudice, io-.
-E’ colpa tua!- dice il ragazzo a voce alta indicando il magistrato – se io sono cresciuto senza un padre: è colpa tua che eri stato informato e non hai mai fatto niente!-
Ma il giudice Brown ribatte : –Io sono oberato di compiti più importanti e meritevoli di attenzione che star dietro a due litigiosi che non hanno mai voluto fumare il calumet della pace; che vedere se un bambino ha veramente due genitori; che pensare a chi dei due genitori garantisce le migliori prospettive di vita. Devo seguire i furti di bestiame, gli assalti degli ultimi indiani alle diligenze e le distillerie clandestine… ho più compiti io che spine un cactus. Non posso stare dietro a tutto, io. Non posso essere esperto di tutto. Pensa che stamane non ho ancora avuto il tempo di bere il mio whisky al saloon, ragazzo. Pensa che a volte non ho neanche il tempo di aprirle le scartoffie. E così mi sono allenato a capirne il contenuto dallo spessore. Non ho più bisogno di aprirli i faldoni, io. E poi, ragazzo, a me hanno insegnato così: che con la separazione un genitore lo si perde quasi sempre ed è meglio, per te, per tutti, che quel genitore sia il padre. Sempre e comunque. Premuroso o menefreghista. E’ questo il tuo supremo interesse. Chi segue sempre la stessa pista non corre il rischio di perdersi. Non chiedermelo dove l’ho studiato e soprattutto dove ho trovato il tempo di studiarlo, ragazzo. Certo non nella Bibbia ma… è così; non è colpa mia se tuo padre è nato Uomo, è nato come un Negro in Alabama, cioè figlio di un Dio minore. Ma, vedi, non mi sbagliavo: anche lo psicologo, prima di andare ad ubriacarsi al saloon, me lo ha confermato. Ho fatto bene ad archiviare tutte le denunce di tuo padre: così tua madre ha dormito serena e tu non sei stato turbato. Questa sera io dormirò tranquillo e la mia coscienza sarà in pace. Come sempre. Domattina mi alzerò e, guardandomi nello specchio, non proverò vergogna. Perché io sono la legge. Io sono la giustizia. Che a volte può e deve essere feroce; come un coguaro. E pungente; come uno sperone. In piena autonomia e indipendenza io sentenziai la tua rovina, è vero: ma lo feci nel nome del popolo!
Ricordalo, ragazzo della prateria. Non fui io a uccidere tuo padre.
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