Solo un mese fa Alessandro Gassman incantava il Festival del cinema del Cairo e con il film Il padre e lo straniero di Ricky Tognazzi (sugli schermi il 18 febbraio) si aggiudicava il riconoscimento come miglior attore. «E ora», dice preoccupato, «cerco inutilmente di contattare l’altro interprete, Amr Waked, bravissimo attore egiziano sposato a una francese, e non ci riesco». Se il Festival del Cairo può essere considerato un indicatore della cultura profonda dell’Egitto e delle sue aspirazioni è un buon segno, perché il film di Tognazzi, tratto dall’omonima opera letteraria di Giancarlo De Cataldo, è un inno alla solidarietà tra padri di bimbi disabili, l’uno cristiano, l’altro musulmano, che parlando lo stesso linguaggio del dolore imparano a capirsi. «Il mio personaggio, il padre occidentale», spiega Gassman, 45 anni, un figlio, Leo, «tende a rimuovere, a scaricare sulle spalle della moglie, la bravissima Ksenia Rappoport, quel fardello che sente, incosciamente, come un’offesa alla sua virilità. Il padre musulmano, invece, vede nella deformità del figlioletto un’occasione per dare ancora più amore. La cultura dell’Islam prevede che il genitore di un disabile venga aiutato da un altro genitore che diventa il vice papà». In una sconosciuta Roma multietnica, con il ritmo del thrilling, lo strano incontro dell’italiano e dell’arabo braccato dai servizi segreti diventa una toccante lezione sul mestiere di padre.
Alessandro, che cosa ha significato per te il passaggio da figlio a padre?
«Avevo 33 anni quando è nato Leo e d’un tratto ho avuto la percezione esatta del mio posto nel mondo. Un attore è sempre portato a parlare di se stesso, vive nel recinto del narcisismo. Un figlio ti obbliga a spostare il baricentro: le attenzioni convergono verso un altro, un esserino che ti scalza dalla tue coordinate autoreferenziali. Io con la paternità non solo sono rinato al meglio come uomo, ma ho saputo tirar fuori anche un altro interprete, più sensibile, più curioso».
Il bambino l’ha voluto in particolar modo tua moglie Sabrina o è stata una scelta comune?
«L’abbiamo fortemente desiderato entrambi, dopo quattro anni che il nostro rapporto era ben collaudato. Sono felice che Leo sia nato due anni prima che morisse mio padre. Vittorio ha fatto a tempo a vederlo, a giocarci: conservo delle foto tenerissime. Credo che per papà sia stato rassicurante vedermi avviato al mestiere di padre».
Tu che cosa hai preso nel bene e nel male dalla pedagogia di Vittorio, dal suo modo di rapportarsi ai figli?
«Il problema di noi padri teatranti sono le assenze: rischiamo, per via delle lunghe tournée, di perderci momenti della vita dei nostri figli che non torneranno più. Papà cercava di fare i salti mortali per esserci. Così faccio anch’io. Dopo la pomeridiana domenicale mi metto in macchina e dall’angolo più sperduto d’Italia riguadagno la base romana. Lunedì è il giorno di me e Leo. Purtroppo, come mio padre, ho delle rigidità, rischio di essere percepito come un papà un po’ rompi».
Su che cosa non transigi?
«Sulle regole. Sì, lo confesso, io voglio un figlio “fesso” che da grande pagherà le tasse, rispetterà la legge. La griglia di quello che si può fare e quello che non si deve fare è fondamentale per l’uomo, per il futuro cittadino. Davanti all’attuale caos, ai poteri dello Stato che entrano in rotta di collisione, ai continui scandali, io, da padre, mi sento in imbarazzo. Come faccio a spiegare a mio figlio quello che sta succedendo? Dove trovo esempi positivi per educarlo?».
Leo che carattere ha?
«È un dodicenne sereno, educato. Dice in continuazione: “scusa”, “posso”, “grazie”. Quando gli faccio dei regali, sottolineo che lui è un bambino fortunato e che al mondo non sempre viene premiata la buona condotta di un ragazzo, ci sono bambini che non vanno a scuola, non hanno niente da mangiare, vengono sfruttati. Mi segue, partecipe. La mamma si è accorta che ha un buon orecchio musicale e allora si è presentato alla selezione per il Conservatorio di Santa Cecilia. Su 400 aspiranti ne hanno ammessi solo due, lui e un altro. Studia chitarra classica».
Con Leo affronti anche i temi più delicati?
«Certo, parliamo di tutto. Gli ho fatto pure la spiega della sessualità, senza prenderla troppo alla larga, con la favoletta dell’impollinazione. Sono stato più diretto. Era necessario perché in classe ha compagne che già sembrano donne. Oggi i maschietti rimangono un po’ indietro, scavalcati dall’intraprendenza e dalla disinvoltura delle ragazzine, che possono creare complessi. Meno male che ho un figlio maschio, con una figlia femmina sarei stato sempre in ansia».
Con tuo figlio fate sport insieme?
«Sì, abbiamo sempre avuto un contatto fisico ravvicinato, ci piace sciare, nuotare, giocare al calcio. Quand’era piccolino facevamo la lotta sul lettone. Del resto la confidenza dei corpi di padre e figlio è una dei ricordi più belli della mia infanzia. Vedevo quel mio papà così bello, atletico, superlativo in tutte le discipline e gli andavo dietro, volevo essere come lui».
E ci sei riuscito!
«Macché! Lui era superdotato nella mente e nel fisico, io sono un uomo normale che con l’impegno e l’autodisciplina ha tirato fuori qualche talento».
C’è stato un periodo di conflittualità tra te e Vittorio.
«Tra i 15 e i 18 anni i ragazzi sono bombe ormonali, confusi, ribelli per principio. Ho attraversato un periodo difficile, doloroso e oggi, a posteriori, devo riconoscere che mi ha salvato la severità di mio padre».
Dimmi la verità, Alessandro: quando a un attore chiedono di passare al ruolo di padre è un po’ uno choc?
«Non per me. Figurati che io ho ricevuto i più importanti riconoscimenti della mia carriera per l’interpretazione di un vecchio di 85 anni ne La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard. La scocca regge, per fortuna, e dentro c’è l’aspirazione alla maturità. Guarda, sono anche contento di liberarmi dell’etichetta di sex-symbol, dell’obbligo di dover piacere a tutti i costi».
Com’è il rapporto con tua moglie?
«Sempre litigarello, per via delle mie rigidità. Sabrina è l’amore della mia vita, tutto ciò che sono lo devo a lei: è lei che si occupa del ragazzo, della casa, lei che gestisce il mio lavoro. Oltre al bene c’è la stima, è una donna che vale e non sgomita per stare in primo piano».
Come vedi gli anni futuri?
«Spero di viaggiare per seguire i concerti di Leo. Continuerò a far teatro, anche se si guadagna meno, perché così do il mio contributo alla cultura e nelle vesti del capocomico, che deve assumersi responsabilità per gli altri, mi sento ancora più padre».
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